«Appunto.»
Ci volle qualche secondo perché potessi assorbire l'ultima informazione.
«Stai dicendo che la ragazza del caso 38428 è stata cresciuta in un posto, ma ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in un altro.»
«Così sembrerebbe.»
«Per esempio, questa ragazza potrebbe essere cresciuta in California.»
«O in una regione isotopicamente simile.»
«E in seguito potrebbe essersi trasferita in Québec o in Vermont.»
«O in una regione isotopicamente simile a queste due.»
Non vedevo l'ora di parlare con Charbonneau.
«Arthur, tutto questo è davvero fantastico. Grazie.»
«Te l'ho detto. Il nostro obiettivo è soddisfare le vostre richieste. Fammi sapere se riesci a identificare queste ragazze.»
Ero così impaziente che digitai un numero sbagliato e dovetti richiamare.
Charbonneau era fuori. E anche Claudel.
Ma quei due si fermavano in ufficio ogni tanto?
Lasciai un messaggio alla segretaria e inviai anche una chiamata al cercapersone di Charbonneau.
Quindi tornai in laboratorio.
Prevedendo ciò che avrei trovato, portai al microscopio il cranio e la mandibola della ragazza nella cassa di Dottor Energy.
Eccoli. Cinque minuscoli solchi, due in posizione superiore e tre in posizione posteriore rispetto al canale auricolare sull'osso temporale destro. Ingranditi, i tagli erano simili a quelli del caso 38427.
Sulla mandibola e sulle altre ossa craniali non rilevai nulla.
Gesù santo. Che cosa avevano fatto a queste ragazze?
Anne mi chiamò all'una e un quarto, apatica e giù di corda. Dopo essersi scusata per il pessimo umore che l'aveva accompagnata per tutta la settimana, mi disse che pensava di ripartire. E aggiunse che non voleva approfittare oltre della mia ospitalità.
Le assicurai che non stava affatto approfittando, e che averla con me mi faceva molto piacere. Visto il suo umore, la seconda affermazione era un filo esagerata, ma la incoraggiai ugualmente a fermarsi da me, finché non avrebbe trovato un posto migliore dove andare.
Charbonneau telefonò all'una e quaranta.
«Cibole! Oggi fa più freddo qui che nello spazio siderale.»
«Ha ottenuto qualche risultato dal database del CPIC?»
«Sì.»
Sentii un rumore di cellophane.
«Visto che non sappiamo se le due ragazze senza sigillante dentario sono morte prima o dopo quella con il sigillante, ho impostato le ricerche in due modi. Prima, ho richiesto i casi di persone scomparse degli anni Novanta.»
«Ragionevole, visto la datazione al carbonio 14.»
«Ho trovato qualcosa di vicino, ma niente di che.»
Dai rumori che sentivo, sembrava che Charbonneau stesse mangiando qualcosa a base di caramello o di toffee.
«Poi ho tralasciato la data della scomparsa. E ho ottenuto quello che mi aspettavo, vista la mancanza di indicazioni su denti, segni particolari e date.»
«Molte persone?»
«Un elenco lungo da qui a Sidney.»
«Che cosa mi dice del caso 38428?»
«Ho cercato fino all'inizio degli anni Ottanta. Il braccio rotto ha dimezzato i casi. Anche qui, alcuni casi si avvicinano, ma nessuno corrisponde. Di sicuro sapere dove vivevano queste ragazze aiuterebbe.»
«Che mi dice di California centrosettentrionale?»
«Sì. Ecco, una cosa così.»
«Sono seria.»
Qualsiasi rumore di masticazione si interruppe.
«È uno scherzo.»
Senza soffermarmi troppo sui dettagli biochimici e geofisici, spiegai a Charbonneau che cosa mi aveva riferito Arthur Holliday.
«A Luc verrà un travaso di bile.»
«Dovrete inviare i dati delle tre ragazze oltre confine.»
«NCIC. Già fatto. E già che ci sono, li mando anche alla polizia di Stato del Vermont e della California.»
«Forse questo è eccessivo.»
«Non farà male a nessuno.»
«A parte al suo collega.»
Charbonneau rise.
«Veramente, c'è un'altra cosa» dissi.
«La ascolto.»
Gli parlai delle tacche e dei solchi.
«E secondo lei quei segni sono stati lasciati da un bisturi?»
«Oppure da una lama estremamente affilata e sottile.»
«Su tutti e tre gli scheletri?»
«Sì. Anche se i segni sui resti nell'involucro di cuoio sono diversi dagli altri.»
«In che cosa?»
«Sono più grossolani. E i margini sembrano scheggiati.»
«Significa che sono stati lasciati da oggetti diversi?»
«Forse. Oppure, sono stati lasciati sulle ossa già secche. O forse non sono affatto il risultato di una incisione ma sono segni postmortem simili ai tagli.»
«Per esempio graffi causati dal trascinamento del corpo. O dal suo rotolamento.»
«Forse.»
«Non sembra convinta.»
«Sembra che questi segni seguano un disegno preciso.» Mi interruppi, visualizzando nella mente cranio e mandibole. «Si trovano tutti intorno al foro auricolare.»
«Su quale scheletro?»
«Su tutti e tre.»
«E in altri punti? Niente?»
«No.»
«Santa merda. Pensa che qualcuno abbia tagliato le orecchie a quelle ragazze?»
Ci avevo pensato anch'io.
«Non so.»
Dopo aver comunicato a LaManche ciò che avevo appreso da Arthur Holliday, trascorsi il resto del pomeriggio in compagnia delle ragazze della pizzeria. Ormai pensavo a loro in questi termini. Le mie ragazze. Le mie ragazze perdute.
Riesaminai ogni osso, tutti i frammenti e i denti. Studiai le radiografie dei denti e dello scheletro. Ripassai la terra al setaccio. Mi scervellai sui bottoni.
Quando infine tornai a sedere, le finestre erano scure e il corridoio era immerso nel silenzio. L'orologio diceva cinque e venti.
Non avevo scoperto una sola informazione aggiuntiva.
Chiusi gli occhi.
La mia incapacità di dare un nome a quelle ragazze mi riempiva di tristezza. La mia incapacità di dare risposte soddisfacenti a Claudel mi riempiva di rabbia. L'incapacità di capire il senso di quei bottoni mi faceva sentire frustrata. La mia incapacità di individuare quei segni sul cranio prima che Bergeron me li facesse notare mi faceva sentire in colpa.
Com'era possibile che quei segni mi fossero sfuggiti? Sì, è vero che mi ero interrotta molte volte. Sì, è vero che avevo lavorato su altri aspetti del caso. Sì, è vero che i segni erano quasi invisibili. Sì, è vero che uno dei tre crani era frammentato. Tuttavia, com'era possibile che una cosa così importante mi fosse sfuggita?
Fallimento su tutti i fronti, e non un goccio da bere.
Fallimento con Anne.
Fallimento con Ryan.
«Ryan!» esclamai, stizzita.
«Sì?»
Aprii gli occhi.
Ryan mi guardava dalla soglia, trattenendo il cappotto sulla spalla con un dito. Aveva un'espressione che non avrei saputo decifrare.
Il tenente della SQ alzò la mano, palmo avanti.
«Lo so. Che cosa ci fai qui? Giusto?» mi disse.
Feci per rispondere, ma Ryan mi interruppe.
«Lavoro qualche piano più sotto.» Sorrise. «Sono un poliziotto.»
Cambiai posizione sulla sedia, e mi portai i capelli dietro le orecchie.
«Hai notizie di Louise Parent?»
«No.»
«Hai trovato Rose Fisher?»
Il sorriso di Ryan svanì. «No. E ho la sensazione che non sarà facile trovarla.»
«Credi che sia morta?»
«Ha sessantaquattro anni. Manca da almeno una settimana.»
«Che genere di pazzo psicopatico se ne va in giro a uccidere donne anziane?»
Ryan interpretò la mia frase come una domanda retorica. «Davanti a casa tua c'è ancora la pattuglia di sorveglianza?»
«Sì.» Se fossi venuto a trovarmi, l'avresti vista. «Per caso stai insinuando che sono anziana?»
«Voglio che tu tenga gli occhi ben aperti, Tempe.»
«Li chiudo raramente in questo periodo, Andy.»
Ryan ignorò la mia allusione.
«Sto per andare a dare un'occhiata alla casa di Rose Fisher. Ho pensato che forse ti faceva piacere esserci.»
Infatti.
Indicai con la mano gli scheletri. «Sono piuttosto occupata.»
«Quelli non vanno da nessuna parte.» Un altro dei suoi sorrisi disarmanti.
Di nuovo mi sentii divisa sull'atteggiamento da tenere. Dovevo affrontarlo a viso aperto? Oppure era meglio lasciar cadere la cosa?
Decisi di rimanere sul vago. E dare a Ryan la possibilità di essere il primo a parlarne.
«Andy, a te capita mai di porti delle domande?»
«Certo. Che cosa è successo ad Alice Cooper?»
«Parlo di domande importanti.»
«Che cos'era Alice Cooper?»
«Non sto scherzando.»
«Nemmeno io.» La voce di Ryan era calma. «Allora, ti va di venire?»
Al diavolo le relazioni. Al diavolo Andrew Ryan. Cauterizza la ferita. Fai il tuo lavoro.
Mi tolsi il camice. Buttai le chiavi nella borsa e presi il giaccone dall'attaccapanni.
«Andiamo.»
Attraversammo la città nella lentezza del traffico delle ore di punta. In auto, l'atmosfera era rilassata come un serpente avvolto a spirare. La conversazione era inesistente.
Una serie di immagini familiari mi galopparono nella mente. Ryan in spiaggia. Ryan e io in Guatemala. Ryan nel mio letto.
Ryan e la sua lolita.
A un certo punto mi accarezzò un ginocchio. Un missile partì alla volta della mia libido.
Chiusi gli occhi, e mi sforzai di mantenere il controllo. E respirai a fondo.
Quando arrivammo a Candiac, avevo i muscoli del collo tesi come corde di volino.
Le persiane di tutte le finestre della casa di Rose Fisher erano chiuse. Da una finestra filtrava una morbida luce gialla.
«Strano.» Ryan accostò al marciapiede e spense il motore.
«Che cosa?»
«Non ricordo di aver lasciato luci accese.»
«Il posto è ancora sigillato?»
«Non più. La Scientifica ha concluso il suo lavoro giorni fa. E hanno tolto i sigilli.» Ryan aprì la portiera. «Rimani qui.»
Concessi a Ryan qualche secondo, poi lo seguii fino alla porta di ingresso. Una ghirlanda natalizia augurava ancora a tutti JOYEUSES FÊTES.
Ryan suonò il campanello.
All'interno, il rumore risuonò debole.
La mia sciarpa sventolò agitata dal vento.
Ryan suonò ancora.
I secondi passarono. Un'altra raffica di vento. Sentii una lacrima scivolarmi sulla guancia. Mi abbassai il cappello sulla fronte.
Ryan stava cercando le chiavi quando nel soggiorno si accese una luce. Una chiave girò nella serratura e poi il pomo della porta ruotò. Dalla porta ancora socchiusa spuntò una faccia.
Era l'ultima faccia che mi aspettavo di vedere.
23
«Voi chi sciete?» Le parole suonarono umide e scivolose, come pronunciate da qualcuno con la bocca piena di piselli.
Ryan mostrò il distintivo.
«Poliscia?» Intimorita.
«Possiamo entrare, signora Fisher?»
«Dov'è Louisc? Dov'è mia sciorella?»
Santo cielo. Non sapeva niente.
«Volevamo parlarle proprio di questo.» La voce di Ryan era calma e rassicurante.
La porta si aprì. Il viso di Rose Fisher ricordava una zucca, ed era stranamente concavo intorno alla bocca.
«Ascpettate.»
La porta si richiuse.
Il vento mi continuava a tormentare la sciarpa e il colletto. Abbassai la testa. Pestai i piedi per terra per riscaldarli.
Mi sentivo il cuore pesante. Ryan e io eravamo latori di una terribile notizia. Le nostre parole avrebbero cambiato la vita di Rose Fisher per sempre. Detestavo quello cui stavo per assistere. Non faceva parte del mio lavoro, e ne ero grata, ma quando in qualche modo mi coinvolgeva, lo detestavo.
Dopo qualche minuto la porta si riaprì e Ryan e io entrammo in casa. Subito mi sentii avvolgere da una piacevole sensazione di calore.
Rose Fisher non era una donna robusta. Era semplicemente enorme. La permanente e la tintura mal fatte davano al suo faccione gonfio un aspetto da clown. E la sovrabbondanza di cosmetici di certo non aiutava a migliorare il suo aspetto.
«Dov'è mia sorella?» La paura c'era ancora, ma il difetto di pronuncia era sparito. Anche se raggrinzita e coperta di rossetto, la bocca di Rose Fisher adesso aveva un'apparenza normale.
La sensazione che mi pesava sul cuore si fece più intensa. Gesù santo. La donna si era messa la dentiera e altro trucco. Per accogliere i visitatori.
Ryan posò una mano sulla spalla di Rose Fisher. «Possiamo sederci?»
Una mano paffuta volò alla bocca. «Oh, mio Dio. È successo qualcosa a Louise, vero?» Due carichi di mascara si spostarono da Ryan a me. «Siete venuti a dirmi che è successo qualcosa a Louise. Dov'è mia sorella?»
Ryan accompagnò la donna fino al divano del soggiorno e si sedette accanto a lei. In un angolo, il piccolo cacatua grigio e giallo cinguettò, poi fischiò sei note di Edelweiss.
Mi sedetti alla sinistra di Rose Fisher e le presi la mano paffuta.
Ryan mi fece un cenno con il mento, invitandomi a parlare.
Il cacatua disse «Bonjour!». Ripeté il suo saluto. Cinguettò.
«Signora Fisher, purtroppo le portiamo cattive notizie.»
La donna chiuse gli occhi. Le sue dita si strinsero in una stretta di morte.
«Mi dispiace moltissimo, ma devo comunicarle che sua sorella è morta.»
Rose Fisher iniziò a dondolare la testa avanti e indietro, gli occhi serrati al punto da sparire nel grasso che circondava le orbite. A ogni oscillazione un suono acuto e sottile le usciva dalla gola e poi andava a morire dietro la dentiera saldamente posizionata sulle gengive.
Passai un braccio sulle spalle della donna.
«Mi dispiace davvero tanto.»
Rose Fisher continuò il suo lamento funebre, mentre ombretto e mascara le colavano dagli occhi mescolandosi con il fard rosato.
Il pappagallo aveva smesso di cinguettare.
Ryan strinse la spalla destra della donna. I nostri occhi si incontrarono. Scoprii che i suoi erano velati dalla stessa mia tristezza.
Il cacatua guardò la sua padrona, la cresta alzata, la testa inclinata di quaranta gradi.
Su un orologio da tavolo ticchettavano i secondi. Il cacatua provò a fischiettare qualche nota di Alouette. Ma poi si interruppe.
Fisher continuò a dondolare la testa e a lamentarsi.
Un minuto. Due.
Ryan uscì dalla stanza, e tornò con una scatola di fazzoletti di carta.
Tre.
Lentamente, la reazione di Rose Fisher divenne più controllata.
«Ti voglio bene.» Cinguettio. «Je t'aìme.»
Gli occhi porcini si aprirono e la testa della donna si voltò verso il cacatua.
«Anch'io ti voglio bene, 'Tit Ange.»
Il Piccolo Angelo inclinò la testa, ma non aggiunse altro.
«Mia sorella adora quello sciocco d'un pappagallo.» Quasi impercettibile. «Adorava.»
Ryan le porse la scatola con i fazzolettini di carta. Lei ne prese alcuni e si voltò verso di me, la faccia un ghiacciolo arcobaleno lasciato a sciogliersi nel fango.
«Lei chi è?»
«Sono la dottoressa Temperance Brennan. Lavoro all'Istituto di medicina legale.»
Sotto la maschera da clown, la faccia di Rose Fisher si fece pallida.
«È stata una reazione allergica, vero?»
«Al momento la causa del decesso non è stata ancora determinata con certezza.»
Rose Fisher si asciugò il pasticcio che aveva sulla faccia.
«Non avrei mai dovuto lasciarla sola. Non stava bene.»
Fisher si abbandonò sul divano.
«Sua sorella era malata?» domandò Ryan.
«Allergica. Le lacrimavano gli occhi, si grattava in continuazione, le colava il naso. Ma non avrei mai immaginato...»
Il petto della donna si sollevò per un altro spasmo involontario. Presi un fazzolettino e glielo porsi.
«Mi rendo conto che per lei è molto difficile» dissi con la voce più tranquillizzante che riuscii a trovare. «E sono davvero desolata di doverle fare queste domande. Ma nel corso della settimana, moltissime persone hanno cercato di rintracciarla. Potrebbe dire al tenente Ryan e a me dov'è stata?»
«Louise e io ci eravamo iscritte a un corso di ceramica a Pointe-aux-Pics. Pensavamo che sarebbe stato divertente imparare a fare qualche vaso...»
Singhiozzo. Altro singhiozzo.
«... e dormire in un Bed&Breakfast e fare le compere di Natale nella zona di Charlevoix.»
«Sua sorella non si è sentita di venire con lei?»
Quando Rose Fisher annuì, il mento affondò tra le pieghe di grasso che aveva sotto la gola.
«Louise ha insistito perché andassi. Diceva che se la sarebbe cavata. E che se proprio avesse avuto bisogno di qualcosa avrebbe chiamato Claudia. Che è mia figlia.» La gola di Rose Fisher sembrò stringersi. «Oh, mio Dio. Claudia sa quello che è successo?»
«Sì, signora Fisher. Ed era preoccupata per lei.»
«Avremmo dovuto dirglielo. Io avrei dovuto dirglielo. Quando Louise ha deciso di stare a casa, non ci era sembrato necessario. Claudia mi assilla con il fatto che non vuole vedermi guidare in inverno. Mi tratta come una vecchietta che non riesce nemmeno a stare in piedi. Vorrebbe che stessi sempre a casa.»
«Quando è rientrata da Charlevoix?» domandò Ryan.
«Poco prima che arrivaste voi. Credevo che Louise fosse andata in chiesa. Il giovedì sera giocano a Bingo. Io ero molto stanca per il viaggio, perciò stavo per scriverle un messaggio e andare a letto.»
Rose Fisher continuava a tormentare il fazzolettino ormai logoro.
«Il letto di Louise è sfatto. E questo non è da lei.»
Il mastodontico petto della donna prese di nuovo a sussultare per i singhiozzi, singhiozzò ancora.
«Lasci che le porti un po' d'acqua.»
Mentre riempivo il bicchiere dal rubinetto della cucina, Ryan e Rose Fisher continuarono a parlare in soggiorno. Di tanto in tanto, il cacatua cinguettava o cantava un frammento di canzone.
Prima di tornare in soggiorno, andai a fare un rapidissimo sopralluogo nella camera di Louise Parent. Il luogo non era molto diverso da ciò che avevo visto sulle fotografie della polizia. Il letto adesso era completamente disfatto, e sul materasso spiccava una macchia. Era il punto in cui la vescica di Louise Parent si era svuotata, al momento della morte. Davanti alla testiera c'era un unico cuscino.
Tornai in soggiorno e porsi a Rose Fisher il bicchiere d'acqua.
Ryan mi guardò e scosse impercettibilmente la testa, per dire che la donna era troppo scossa per rispondere in modo utile e sensato alle domande.
«Adesso chiamo sua figlia e la avverto» disse Ryan.
Rose Fisher sorseggiò rumorosamente l'acqua.
«Ci rivediamo domani, signora Fisher. Quando si sarà un po' ripresa.»
«Quando posso vedere mia sorella?»
Ryan mi guardò.
«Se lei vuole, possiamo fissare un appuntamento per una visita in obitorio.»
«Che terribile Natale» disse Rose Fisher con voce tremante, mentre le lacrime le luccicavano sulle guance.
Le strinsi ancora la mano. «So bene come sia duro perdere qualcuno a cui si vuol bene.»
«Devo organizzare il funerale.»
«Sono sicura che Claudia le sarà di grande aiuto.»
«So tutto quello che Louise avrebbe voluto.»
«Bene» dissi. «Così sarà più facile.»
«Ci siamo dette tutto.»
Bene, pensai di nuovo.
Claudia arrivò nel giro di qualche minuto.
Prima di lasciare le due donne, avevo un'ultima domanda.
«Signora Fisher, sua sorella dormiva con un cuscino di piume?»
«Mai. Louise era allergica.»
«E lei? Lei usa un cuscino di piume?»
«Piumino d'oca.» Rose Fisher si rabbuiò. «Perché? Il mio cuscino era sul letto di Louise?»
Il mio sguardo incontrò quello di Ryan.
«Sembra una brava donna» dissi, salendo in auto.
«Soprattutto, è una donna viva.»
«Non c'è da meravigliarsi che nessuno avesse visto la sua macchina.»
«Non era molto probabile, visto che era parcheggiata davanti a qualche squallido B&B di Pointe-aux-Pics.»
Procedemmo nel traffico in silenzio, mentre i rami spogli disegnavano strane forme nei coni di luce dei lampioni. Dopo qualche minuto, Ryan imboccò il Pont Victoria e le ruote produssero il rumore di un pollice che strisciava sul bordo di un grande bicchiere. Sotto di noi, il San Lorenzo nero e immobile.
«Louise Parent è stata assassinata» dissi, cupa.
«Sembrerebbe così.»
«Con il cuscino di Rose Fisher.»
«I tecnici che si occupano dell'esame delle fibre saranno in grado di confrontare le piume.»
«Qualche bastardo senza scrupoli si è infilato in casa, ha preso un cuscino dal letto di Rose Fisher e l'ha usato per soffocare Louise Parent.»
«Mentre lei era persa nel suo sonno chimico.»
«Com'è possibile che qualcuno riesca a introdursi in una casa senza lasciare nessuna traccia?»
«Voglio discutere proprio di questo, con la signora Fisher.»
«E con la nipote.»
«E con la nipote.»
«Pensi che Rose Fisher sapesse della telefonata che ho ricevuto da parte di Louise Parent?»
«Un altro argomento di discussione.»
La conversazione si limitò a questo.
Bene.
Non volevo pensare a Rose Fisher. Né a Louise Parent. Né a Ryan, ad Anne o alle mie ragazze perdute.
Appoggiai la testa allo schienale del sedile, chiusi gli occhi e occupai la mia mente cercando di formulare frasi che descrivessero il silenzio sceso nell'abitacolo.
Il silenzio di una tomba murata. Di una biblioteca abbandonata in un sotterraneo del Vaticano. Di un buco ai confini di una galassia spiraliforme. Di un cacatua spaventato.
Ryan mi accompagnò fino alla mia auto.
«Ci sei tu per domani?»
«Per domani?»
«Per la chiacchierata con Rose Fisher.»
«A che ora?»
«Ti chiamo dopo che abbiamo contattato la nipote.»
Il tempo di percorrere il tratto di strada che separava l'Istituto di medicina legale da Centre-Ville ed erano già le sette e trentacinque. Anne stava sonnecchiando, con gli occhiali floreali sul naso, un libro aperto sul petto. Birdie era accoccolato accanto a lei.
Anne aveva cucinato un arrosto. Preparammo la tavola e la cena chiacchierando del più e del meno.
A tavola, Anne mi parlò del libro che stava leggendo, un saggio sulla morte. Trovava la prospettiva dell'autore niente meno che illuminante. Io invece trovai questo suo interesse inquietante.
«Perché questo morboso interesse per la morte?»
«Sembri Annie Hall.»
«E tu ti comporti come Woody Allen.»
Anne rifletté qualche secondo.
«Per andare oltre talvolta si impone un cambiamento.»
«Andare oltre che cosa e cambiare come?»
«Nella sostanza.»
«Di che cosa stai parlando?»
«Di cicli.»
Mentre cercavo di capire il senso di quella enigmatica risposta, squillò il telefono. Era Katy.
«Ciao, mamma.»
«Ciao, piccola. Dove sei?»
«A Charlottesville, ma domani torno a casa.»
«Gli esami sono andati bene?»
«Sicuro! Ti chiamo perché volevo essere sicura che tu fossi a Charlotte il 22.»
Il 22?
«Ti ricordi che c'è la festa dei regali per il matrimonio a casa di Hannah? Avevi promesso di aiutarmi.»
Ma quale idiota universale può organizzare un matrimonio durante le feste di Natale?
«Certo che ci sarò, Katy.»
«Conto sui tuoi anni e anni di esperienza, mamma.»
«Carina.»
«Ah... ti ho mandato due mail. Notizie varie, auguri di Natale, lista dei regali preferiti eccetera eccetera. Mi piacerebbe da morire la felpa Anthropologie.»
«Vedremo.»
«Ti voglio bene, mammina. Ora devo andare.» La voce di Katy sembrava intrecciata di vischio e agrifoglio.
Ci salutammo e tornai da Anne. Si era già ritirata in camera sua. Finite le spiegazioni sulla realizzazione e sulla sostanza. Ebbi la sensazione che avesse utilizzato la telefonata di Katy come una scusa per prendere congedo.
Mi spogliai, struccai, spazzolai i capelli, lavai i denti, senza smettere di pensare alla promessa che mi aveva estorto Katy. Ero così impegnata con le ragazze della pizzeria e la vicenda di Louise Parent che avevo letteralmente dimenticato il Natale. E anche la festa prematrimoniale di Hannah.
Sarei riuscita a venire a capo di quel caso nel giro di una settimana, o avrei dovuto mettere in attesa le mie ragazze e rimandarle a dopo la pausa natalizia?
Tornai in camera e feci per puntare la sveglia. Ma poi mi venne in mente che Ryan non mi aveva dato un orario per il nostro appuntamento. Ricordavo di averglielo domandato ma non ero sicura che mi avesse risposto.
Le dieci e mezzo. Probabilmente era a casa.
Premetti il pulsante della chiamata rapida. Mi rispose al secondo squillo.
«Sì?» Voce femminile.
Una sensazione incandescente mi attraversò lo stomaco e i polmoni.
«Andrew Ryan, per cortesia.»
«Con chi parlo?» Donna giovane.
«La dottoressa Brennan.»
«Ah, è lei.» Donna giovane e affilata come una lama. «Perché non lo lascia in pace?»
«Prego?»
«Lei deve toglierselo dalla testa, ha capito?»
«Lei è Danielle?»
Lungo silenzio.
Cercai di ricordare. Come si chiamava quella ragazza?
«Lei è la nipote del tenente Ryan?»
La donna sbuffò, stizzita. «La nipote? Lui le ha detto così? E lei ci ha creduto? È davvero più scema di quel che pensassi.»
La verità entrò in scena come una lama di ghigliottina.
«Lo deve lasciare in pace, capito?»
Un secondo dopo sentivo solo il suono della linea interrotta.
24
Dopo essermi rigirata nel letto per gran parte della notte, quasi più depressa della mia amica Anne, verso il mattino iniziai a dormire un sonno agitato. E sognai Ryan.
Eravamo in una lunga e oscura galleria. Mentre parlavamo, Ryan si allontanava sempre di più, finché il suo corpo non fu che una sagoma confusa all'imboccatura del tunnel.
Io cercavo di raggiungerlo, ma sentivo le gambe pesanti, immobili. Gridavo, lo chiamavo, ma la mia bocca non aveva voce.
Poi, nel buio, qualcosa mi sfiorava, asciutto e avvolgente come l'ala di un pipistrello.
Io cercavo di sollevare un braccio. Ma il braccio non si muoveva.
Poi mi sentivo sfiorare una guancia...
Sussultai.
E mi svegliai con Birdie che mi leccava il viso.
L'uomo della galleria telefonò mentre stavo mangiucchiando pane tostato e cornflakes. Decisi di andare a Candiac con lui come previsto. Volevo parlare con Rose Fisher. Dopodiché: sayonara, adieu, bye bye... Troppi batticuori. Troppe notti insonni.
Troppe lolite.
Valutai un'eventuale richiesta di spiegazioni riguardo la donna che aveva risposto al telefono la sera prima. Ma poi rinunciai. Quella scena l'avevo già recitata. Avevo già vissuto le lacrime e le accuse. L'evidenza negata con ostile determinazione. Non avrei rivissuto il dramma una seconda volta.
E Birdie approvò la mia decisione.
«Dormito bene, splendore?»
«Come un sasso.»
«Claudia Bastillo accompagnerà Rose Fisher a vedere la salma della sorella alle dieci. Ha proposto di passare a casa loro alle undici.» Udii il rumore di un fiammifero acceso, poi una boccata di fumo. «Ti vengo a prendere alle dieci e mezzo. Va bene?»
«Okay. Ti aspetto.»
Claudel mi chiamò mentre mi stavo asciugando i capelli.
Come sempre, niente saluti, niente domande di cortesia circa la mia salute o la mia giornata.
«Il tenente Charbonneau mi ha detto di chiamarla, anche se non riesco a capire perché.» Quasi sempre, il francese è una lingua che accarezza le orecchie come seta. In bocca a Claudel, aveva l'effetto di una patata che rotola su un pendio. «Non ho niente da riferire.»
«In che senso?»
«Niente pistoleri tra gli inquilini di Cyr. Nessun risultato positivo dal database del CPIC. Idem con il NCIC. Niente di significativo in California o Vermont.»
«Nemmeno una persona scomparsa che si avvicinava al nostro profilo?»
«Una ragazza in California. Polso destro rotto. Sfiora il valore minimo del range che lei ha fornito per l'altezza.»
«Quanto?»
«160.»
Sentii una sorta di scossa elettrica.
«Potrebbe starci. A quando risale la denuncia della scomparsa?»
«All'85.»
«Qual è il problema?»
«La ragazzina aveva quindici anni.»
La scossa svanì.
«Lo scheletro con il polso fratturato dovrebbe essere vicino ai vent'anni.» Ripensai alle ossa della ragazza nel loro involucro di cuoio, alla radice dei molari sulle radiografie. «Forse possiamo scendere a diciotto, ma quindici è praticamente impossibile.»
«Esattamente quello che pensavo.»
«Ovviamente, la data della scomparsa non deve necessariamente coincidere con la data di morte. Ha scoperto altro?»
«Ogni anno, scompaiono interi battaglioni di ragazze.»
Brennan, concludi subito questa telefonata, suggerì una voce dentro di me. Altrimenti Claudel dovrà subire un altro duro colpo.
Il mio campanello non suona, cinguetta. E decise di farlo proprio in quel momento.
«Se è possibile, vorrei una stampata di tutte le femmine di quindici anni che risultano scomparse in Québec negli ultimi vent'anni.»
«Sta parlando di decine e decine di persone. E scoprirebbe che gran parte di queste sono ragazzi scappati di casa che tornano da mamma e papà quando si stufano di mangiare scatole di fagioli e di dormire per terra.»
Facile.
«Per me sarebbe di grande aiuto scoprire chi non è un ragazzo scappato di casa.»
Un altro cinguettio.
«Madame, il...»
«Monsieur Claudel, il tenente Ryan è qui. Mi spiace ma la devo lasciare.»
«Andrew Ryan?»
«Stiamo andando a interrogare la sorella di Louise Parent.»
«La donna trovata morta nel suo letto a Candiac?»
«Sì.»
«La vecchietta che ha surriscaldato la sua linea telefonica?»
«Sì, mi ha chiamata.»
«E cosa voleva?»
«È esattamente quello che vorrei scoprire.»
«La sorella, quando si è fatta viva?»
«Ieri.»
«Dove?»
«A casa sua.»
«E dove si nascondeva?»
«A Pointe-aux-Pics.» Gelida. «Vorrei quella stampata prima possibile, per cortesia.»
«Sacrifice.»
«Merci» Stronzo.
Corsi in bagno. Una parte dei capelli era asciutta. L'altra mi ricadeva sulle spalle divisa in tante spirali umide. Presi l'asciugacapelli.
Cinguettio. Con una punta di nervosismo.
«Fantastico.»
Birdie mi guardava dalla soglia. Quando sentì la mia voce, si alzò, allungò le zampe in avanti e se ne andò. Non avevo tempo per lasciare un biglietto ad Anne.
Infilai l'asciugacapelli nella sua custodia, mi calcai un berretto in testa e uscii.
Ryan mi aspettava nell'atrio interno, la faccia arrossata dal freddo. Occhiali da sole marroni. Bomber.
Una scarica di libido partì.
Anche se la telefonata della sera prima stringeva ancora le mie emozioni in una camicia di forza, a quanto pare il desiderio era un mago degno del grande Houdini.
«Ti ho svegliata, pasticcino?» Grande sorriso alla Ryan.
«No, non mi hai svegliata.» Cercai di non lasciar trasparire nessuna ostilità dalla mia voce.
«Siamo un po' tesi, questa mattina?»
«Abbiamo fumato, questa mattina?»
«Giusto un piccolo contrattempo.» Ryan spense la sigaretta in un contenitore di sabbia accanto alla porta.
Fuori, il freddo mi colpì come un'esplosione gelata, mentre il sole trionfava da un cielo terso e azzurrissimo.
L'auto di Ryan aspettava accanto al marciapiede.
Entrai e mi allacciai subito la cintura.
Prima di allacciare la sua, Ryan si voltò verso di me e si spostò gli occhiali da sole sulla testa. Aveva gli occhi cerchiati da due grandi aloni scuri.
«Che cos'hai?»
Non risposi.
«Si vede benissimo che hai qualcosa.»
Continuai a non rispondere, questa volta più convinta.
«Mi sembra di intuire che ce l'hai con me.» Ryan sorrideva, ma gli occhi e le mascelle dicevano che era teso.
«So che ti consideri una persona molto importante, Ryan, ma ho altre cose a cui pensare, oltre a te.»
E a tua nipote. Mi sentivo vulnerabile come un nervo scoperto.
«Vuoi parlare?» mi domandò Ryan.
«Voglio andare a Candiac» dissi. Non ero sicura che la mia voce potesse dire altro senza denunciare tutto il mio malessere.
Partimmo.
Immersi nel silenzio.
La porta della casa di Candiac fu aperta da Claudia Bastillo. Mi misi addosso un sorriso di circostanza e la salutai con calore.
Rose Fisher era seduta in soggiorno, sola. Fissava le veneziane. Indossava un vestito di nailon verde punteggiato di papaveri. I capelli arancioni erano trattenuti sulla testa da una grossa pinza di plastica. Si era truccata in modo ancora più stravagante rispetto al giorno prima. Ammesso che fosse possibile.
'Tit Ange era assorbito da Frère Jacques.
Quando entrammo nella stanza, Rose Fisher non si mosse. Si voltò solo quando sentì la voce della figlia, e ci guardò, stupita, come se cercasse di capire chi potevamo essere.
«È un poliziotto, mamma. E la signora è quella delle autopsie.»
E dopo la sommaria presentazione, Claudia Bastillo si ritirò.
Ryan e io ci sedemmo ai lati della donna. Il «poliziotto» indicò a «quella delle autopsie» di procedere.
«Spero che oggi si senta meglio, signora.»
Rose Fisher annuì con un gesto quasi impercettibile.
«Signora Fisher, vorrei farle qualche domanda riguardo certe telefonate che sua sorella ha fatto a me, chiamandomi all'Istituto di medicina legale.»
Rose Fisher abbassò lo sguardo.
«Quando?»
«La settimana scorsa.»
«Per quale motivo?» Gli occhi della signora Fisher non si spostarono da terra.
«La signora Parent...»
«Louise non si è mai sposata.»
«La signora Parent mi ha parlato di un edificio situato in Rue Ste-Catherine.»
Le dita a salamino della donna si strinsero e si riaprirono.
«Diceva che era preoccupata per certi fatti che erano accaduti laggiù.»
Il nervosismo delle dita di Rose Fisher aumentò.
«Sua sorella ha affermato di sentirsi moralmente obbligata a rivelare certe informazioni di cui era al corrente alle autorità.»
«E ha chiamato lei?» domandò Rose Fisher alzando lo sguardo, e mi fissò con gli occhi sgranati.
«Due volte. Lei sa perché?»
«Non credo che lo avrebbe fatto.»
«Di che cosa voleva parlarmi sua sorella?»
In quel momento la nipote entrò in soggiorno e venne a sedersi nella poltrona di fronte al divano. Il cacatua smise di cinguettare e passò a emettere una serie di suoni acuti e fastidiosi.
«'Tit Ange!» urlò Claudia Bastillo.
Il cacatua per tutta risposta produsse un'altra serie di laceranti acuti.
«Basta!»
Il cacatua disse «bel pappagallo» in inglese e francese, poi iniziò a indagare il contenuto della sua ciotolina di semi.
«Sta imitando il rivelatore di fumo» spiegò la nipote. «Quel piccolo idiota ha imparato il suono un fine settimana che è rimasto solo in casa e l'allarme si attivava in continuazione.»
«Ha davvero un grande talento» osservai. «Ed è anche bilingue.»
«È un rompiscatole.» Era chiaro che Claudia Bastillo non amava il pennuto.
«Trilingue.»
Ci voltammo tutti verso Rose Fisher.
«Inglese, francese e cacatua. Louise rideva sempre di questa battuta.» La voce di Rose Fisher era rotta dai singhiozzi. «Mia sorella era una traduttrice.»
«Non lo sapevamo.»
La donna annuì e il suo doppio mento prese a tremolare.
«Traduceva libri dal francese all'inglese. E anche viceversa.»
«Un lavoro molto impegnativo» commentai, e poi mi voltai verso la nipote.
«Stavamo chiedendo a sua madre se era a conoscenza di certe telefonate che sua zia ha effettuato all'Istituto di medicina legale poco prima di morire.»
«C'entrano qualcosa con la sua morte?»
«Non ne siamo sicuri.»
«State per caso insinuando che mia zia non è morta per cause naturali?»
«Noi dobbiamo indagare in ogni direzione» precisò Ryan.
«Sospettate di noi?» Voce acuta come quella del cacatua.
«Ovviamente no.» Ryan suonò come la rassicurazione fatta persona. «Stiamo semplicemente cercando di capire che cosa passava per la mente di sua zia.»
Dopodiché Ryan si rivolse a Rose Fisher.
«Per caso lei sa che cosa la signora Parent volesse dire alla dottoressa Brennan?»
Quando la donna annuì, una lama di luce biancastra scivolò sulla sua guancia.
'Tit Ange fischiettò un verso di Camelot.
Rose Fisher inspirò a fondo.
«Louise ha vissuto in Rue Ste-Catherine per quasi diciassette anni. Quando morì mio marito, nel '94, l'ho convinta a trasferirsi da me. Quella casa era uno di quei palazzi molto grandi, con i negozi a livello strada, e la gente che ti vive sopra la testa. Troppo rumoroso per me, ma a Louise piaceva. Aveva un bilocale che dava sulla via, e le piaceva guardare fuori dalla finestra mentre lavorava alla sua scrivania. Si definiva la spiona del vicinato.»
«Che negozi c'erano al pian terreno?» domandai cercando di non essere invadente.
«Di tutti i generi. Una signora che vendeva valigie. Un macellaio. E poi il tizio con il banco dei pegni.»
Rose Fisher abbassò lo sguardo.
«A Louise quell'uomo non piaceva. Non gli piaceva per niente.»
«Come si chiamava?»
«Iniziava per M. Maynard? Martin? Mi sembra che Louise mi avesse detto che era americano. Non ricordo. Sono passati tanti anni.»
Stéphane Ménard. Il tizio sulla lista degli inquilini di Cyr. Quello che aveva affittato i locali nell'edificio di Cyr dall'89 al '98.
«Perché a sua sorella quest'uomo non piaceva?»
«Non fraintendetemi. Louise voleva bene a tutti. Ma questo signore le dava una cattiva sensazione.»
«Lei sa perché?»
Rose Fisher guardò la figlia. E Claudia Bastillo annuì.
«Perché una sera l'aveva visto portare una ragazza addormentata nel suo negozio. Louise mi aveva detto che sembrava la stesse cullando, come una bambina.»
«Una bambina?»
«Be', diciamo che era una ragazzina.»
«Forse era la figlia.»
«Louise mi aveva raccontato che una volta lui le aveva detto di non essersi mai sposato e di non avere figli. Mia sorella aveva un vero talento per aiutare le persone ad aprirsi. Nel giro di cinque minuti, Louise era capace di farsi raccontare la storia di tutta una vita.»
«Nient'altro?» Il mio cuore iniziava a battere più veloce.
«Un'altra volta Louise aveva visto una ragazza scappare via dal negozio. E questo tizio era uscito di corsa in strada e l'aveva riportata dentro.»
«E quando era successo?»
Fisher equivocò la mia domanda. «La sera tardi.»
Guardai Ryan. E mi sembrò colpito almeno quanto me.
«Louise si era tenuta tutto dentro finché non è venuta a stare qua da me. Ma poi ha cominciato ad avere dei rimorsi di coscienza e mi ha raccontato quello che aveva visto.»
«Sua sorella aveva mai cercato di parlare con il venditore di peltri di questi strani fatti?»
Rose Fisher annuì. «Louise mi aveva detto che aveva provato a chiedergli conto di quelle ragazze diverse volte, sa, non proprio direttamente, con qualche giro di parola. Ma in un modo o nell'altro questo tizio aveva sempre evitato di rispondere, e anzi alla fine era anche piuttosto seccato per queste domande, così Louise ha lasciato perdere.»
La donna alzò lo sguardo e mi fissò.
«Louise continuava a tormentarsi, a chiedersi se avrebbe dovuto chiamare la polizia. Per dare almeno una controllata. Io però le ho detto di non impicciarsi. Di non lasciarsi coinvolgere.»
«Questi fatti si sono verificati prima del 1994?»
Rose Fisher annuì. «Secondo lei, l'ho consigliata male?»
'Tit Ange cinguettò e poi lanciò uno dei suoi laceranti acuti.
25
Ryan continuò l'interrogatorio di Rose Fisher. La figlia rimase nella stanza. Io mi allontanai per chiamare Claudel.
Con mia grande sorpresa, rispose al secondo squillo.
Gli raccontai ciò che avevamo saputo da Rose Fisher.
«L'ho già controllato mentre esaminavo la lista degli inquilini di Cyr. Ménard è un santo.»
«Non risulta niente su di lui?»
«Ufficialmente, il tipo non mai nemmeno sputato per strada.»
«È ancora a Montréal?»
«Ha una casa a Pointe-Saint-Charles.»
«Adesso che cosa fa?»
«Niente, per quel che ne sappiamo noi.»
«Ménard ha gestito quel banco dei pegni dall'89 al '98. Prima, di che cosa si occupava?»
Breve pausa.
«La documentazione non è chiara.»
«Come, non è chiara?»
«Si ferma all'89.»
«Non è possibile.»
«Non c'è niente su Ménard, prima dell'89.»
«Niente certificato di nascita, dichiarazione delle tasse, estratti conto, documentazione medica? Niente?»
Silenzio.
«Rose Fisher crede di aver sentito dire dalla sorella che questo Ménard era americano. Avete mandato il suo nome oltre confine?»
Aspettai la risposta di Claudel. Quando sentii che non arrivava, aggiunsi: «Telefono a monsieur Authier e gli dico che abbiamo una pista».
Dopodiché, caro monsieur Claudel, sarai tu a spiegare al grande capo la tua mancanza di entusiasmo per questo caso.
Dopo la chiamata, tornai in soggiorno. Ryan interrogò per un'altra mezz'oretta Rose Fisher e io mi limitai a osservare in silenzio.
Durante la mia assenza, avevano di nuovo devastato lo sgargiante make-up della donna. Il dolore di Rose Fisher stringeva il cuore.
Claudia Bastillo era un'altra storia. Aveva la schiena rigida, lo sguardo fisso e privo di qualsiasi comprensione per la sofferenza della madre. Di tanto in tanto, accavallava le gambe, o incrociava le braccia sul petto. A parte questo, era rimasta sempre immobile e in silenzio.
Poi finalmente le domande di Ryan finirono.
Ci alzammo, rinnovammo le nostre condoglianze a Rose Fisher e alla figlia, e ci congedammo.
Rientrati in auto, Ryan propose di andare a prendere un sandwich.
«No, grazie.»
Il mio stomaco scelse proprio quel momento per brontolare.
«Lo considero un veto metabolico alla tua decisione di saltare il pranzo.»
Senza discutere oltre, Ryan entrò nel parcheggio di un Lafleur, la risposta di Montréal alla ristorazione veloce. Scese dall'auto, fece il giro e venne ad aprirmi la portiera. Mentre uscivo, si chinò fino alla vita e fece uno svolazzo con la mano.
Che diamine. Avevo fame.
I ristoranti Lafleur sono famosi per i loro hot dog al vapore e per le patatine fritte. Steamé et frites, si dice da queste parti.
Dopo qualche minuto, Ryan ed io eravamo seduti uno di fronte all'altro a un tavolo di fòrmica, separati da quattro würstel e una tonnellata di patate fritte.
Il cellulare trillò mentre stavo iniziando il secondo hot dog. Come sempre, Claudel non si perse in convenevoli.
«Vous aviez raison.»
Il würstel mi andò quasi di traverso. Claudel stava ammettendo che avevo ragione in qualcosa?
«Monsieur Stéphane Ménard è nato Stephen Timothy Ménard a St. Johnsbury, nel Vermont. I suoi genitori erano una certa Genéviève Rose Corneau e un certo Simon Timothy Ménard.»
«Quindi Rose Fisher non si è sbagliata.»
«I Ménard erano insegnanti di scuola ma avevano anche una piccola azienda agricola a una ventina di chilometri da St. Johnsbury. Il padre è morto nel '67, quando il figlio aveva cinque anni. La madre è morta nell'82.»
«Come mai Ménard è finito in Canada?»
«Legalmente. La madre era nata a Montréal. Dopo aver conosciuto il futuro marito, si è trasferita in Vermont, si è sposata e ha acquisito la cittadinanza americana. E com'era ovvio, quando il piccolo Stephen ha segnalato la sua presenza, è rientrata in Canada, dai genitori.»
«Quindi Ménard ha la doppia cittadinanza.»
«Sì.»
«Ma non si è stabilito in Canada prima dell'89.»
«Quando Genéviève Corneau è morta, nell'82, Ménard ha ereditato l'azienda agricola. Un bell'appezzamento di terra e una casa con due stanze.»
Fece un rapido calcolo. «Ménard aveva vent'anni.»
«Sì.»
Ryan stava mettendo un po' d'aceto sulle sue patatine, ma non perdeva una parola.
«Ménard è rimasto in Vermont?»
«Charbonneau sta cercando di chiarire la cosa con la polizia di St. Johnsbury. Ho scoperto che i nonni di Ménard sono morti in un incidente d'auto qui a Montréal, nel 1988.»
«Mi lasci indovinare. Ménard ha ereditato la casa dei nonni Corneau, ha detto au revoir al Vermont e ha puntato dritto verso nord.»
«È entrato in possesso della casa dei Corneau nel novembre del 1988.»
«Pointe-Saint-Charles.»
Claudel mi lesse un indirizzo.
Feci un cenno a Ryan e lui mi passò una penna. Annotai l'indirizzo su un tovagliolo di carta.
«Vive solo?»
«Dalla documentazione risulterebbe di sì.»
«Ménard ha qualche precedente negli Stati Uniti?» domandai.
«Guida in stato di ebrezza a diciassette anni. A parte questo, il giovanotto era un modello di virtù.»
Il consueto atteggiamento sprezzante di Claudel stava avendo il consueto effetto sul mio umore.
«Ascolti, finora ci siamo concentrati sulle vittime, e abbiamo lavorato dal basso verso l'alto. Direi che adesso è il momento di invertire il senso di marcia, e di procedere dall'alto verso il basso. In altre parole, di cercare chi potrebbe aver messo quelle ragazze nello scantinato.»
«E lei è convinta che questo Ménard sia il nostro uomo?»
«Per caso lei ha qualche idea migliore, monsieur Claudel?»
Interrompemmo la comunicazione simultaneamente.
Tra un boccone e l'altro del mio secondo hot dog, riferii a Ryan le informazioni avute da Claudel. Se anche Ryan avesse avuto dei dubbi riguardo i miei sospetti su Ménard, li tenne per sé.
«Ménard ormai dovrebbe essere un uomo sulla quarantina» disse, appallottolando l'unto involucro di cartone dove c'erano gli hot dog.
«Senza evidenti mezzi di sostentamento.»
«Ma con proprietà di immobili in Québec e Vermont.»
«E molti parenti morti» aggiunsi.
Charbonneau chiamò mentre stavamo accostando al marciapiede di fronte al mio condominio.
«Come se la passa, dottoressa?»
«Bene, grazie.»
«Ho fatto un po' di interessanti ricerche presso i nostri colleghi dello Stato delle Verdi Montagne... Pare che il nostro uomo sia un laureato.»
«Dove?»
«University of Vermont. Classe 1984. Una bella signora che lavora presso gli uffici amministrativi dell'università mi ha perfino faxato la foto di un annuario studentesco. Il ragazzo potrebbe essere il sogno di ogni madre. Riccioli scompigliati, lentiggini, occhiali alla Clark Kent, sorriso smagliante.»
«Capelli rossi?»
«Un vero pel di carota con gli occhiali. Ah, questo le piacerà molto, dottoressa. Ménard è laureato in antropologia.»
«Sta scherzando?»
«Per niente. E non è finita qui. Ménard ha proseguito gli studi e ha frequentato un master in archeologia in un posto chiamato...» Pausa. «Un momento. Eccolo. In un posto chiamato Chico.»
Il cuore mi schizzò nella stratosfera.
«California State University di Chico?»
«Proprio così. Direi un bel viaggetto, per un ragazzo del Vermont, no?»
Senza scendere nei particolari, spiegai a Charbonneau del test sugli isotopi di stronzio che Arthur Holliday aveva eseguito sui campioni degli scheletri.
«Quindi il tasso di stronzio presente nei denti indicherebbe che la ragazza nell'involucro di cuoio potrebbe essere cresciuta nella California centrosettentrionale.»
«Ah sì?»
«E Chico si trova per l'appunto nella California centrosettentrionale.»
«Mi venisse un accidente.»
«Inoltre, i tassi di stronzio presenti nello scheletro indicano che potrebbe aver trascorso gli ultimi anni della sua vita nel Vermont.»
«Maledetto bastardo.»
«Avete trovato altro?»
«Pare che i risultati accademici di Ménard lasciassero alquanto a desiderare. Dopo il primo anno di dottorato ha mollato tutto, oppure l'hanno espulso. In ogni caso... hasta la vista. Niente master.»
«E dov'è andato?»
«Nel gennaio dell'86 è tornato dalla mamma, all'azienda agricola nel Vermont.»
«Se ha lasciato Chico dopo un anno di dottorato, rimane un vuoto tra la fine del semestre estivo dell'85 e il gennaio dell'86. Dov'è stato in quel periodo?»
«Penso che farò qualche telefonata a Chico.»
«E quando è tornato in Vermont, che cosa faceva?»
«Coltivava ortaggi, immagino. E viveva con i proventi dell'eredità. E non pagava le tasse.»
«Avete contattato qualche residente locale?»
«Sono riuscito a scovare un paio di vicini che ricordavano il ragazzo. Dopo che Ménard ha lasciato il Vermont, in quella zona si sono stabiliti molti nuovi residenti; ma qualche anziano del luogo ricordava ancora Genéviève Ménard e il figlio. Pare la signora fosse una donna di polso. E il guinzaglio del figlio era sempre molto corto.»
«Genéviève Corneau non si è mai risposata?»
«No. I vicini ricordano il piccolo Stephen come un ragazzo tranquillo che rimaneva spesso in casa. Non praticava sport né partecipava alle consuete attività extrascolastiche. Un paio di loro ricordano di averlo visto durante l'anno che seguì il suo rientro da Chico. Il ragazzo doveva aver avuto una specie di epifania durante l'anno di dottorato, perché è rientrato a casa con barba e dreadlock.»
«Be', tipico del Vermont.»
«In che senso?»
«Laggiù sono dei gran conservatori. Che altro hanno detto i vicini?»
«Non molto. Pare che Ménard facesse vita molto ritirata, e che uscisse solo per rifornire la dispensa e fare il pieno di benzina.»
«Forse è il caso di fare una telefonata a Chico. E di scoprire tutto il possibile su questo tizio. E poi bisognerebbe anche dare un elenco di tutte le ragazze tra i quindici e i venticinque anni scomparse nella zona mentre Ménard era lì.»
«Mi par di capire che questo Ménard le sembra il candidato ideale per gli scheletri della pizzeria, giusto?»
«Be', corrisponde al profilo classico. Madre dominante. Ambizioni frustrate. Solitario. Abitazione isolata.»
«Mah... non so.»
«Unisca i punti, tenente Charbonneau. Tre ragazze sono state sepolte nello scantinato di un locale che Ménard ha tenuto in affitto per anni. La datazione al carbonio 14 suggerisce che la data di morte coincide con il periodo in cui Ménard ha affittato i locali. Louise Parent aveva sospetti che l'hanno spinta a chiamarmi due volte.»
Stavo riassumendo non tanto per Charbonneau, quanto per Ryan.
«Secondo la sorella, Louise Parent voleva dirmi che aveva visto Ménard portare una ragazza adolescente priva di conoscenza dentro il suo negozio. E che un'altra volta lo aveva visto riportare nel suo negozio una ragazza che scappava in strada. Ed entrambi gli episodi si sono verificati a tarda sera.»
«E adesso Louise Parent è morta» aggiunse Charbonneau.
Guardai Ryan. Stava seguendo ogni parola.
«Appunto. E adesso Louise Parent è morta» dissi.
«Si direbbe che ci ritroveremo tutti a lavorare alla stessa pista.»
«Così pare.»
«Ryan è lì?»
«Sì.»
«Posso parlargli?»
Passai il cellulare a Ryan, poi lo osservai parlare con Charbonneau. Ero molto tesa, ma riuscii a mantenere un'espressione neutra. Nessuna traccia del colpo involontario che Charbonneau mi aveva inferto quel lunedì. Nessuna traccia della sofferenza che la sua rivelazione aveva innescato. Nessuna traccia del tormento patito a causa della telefonata della sera prima.
Avevo giurato di prendere le distanze da Ryan, ma a quel punto tutte le tessere del mosaico stavano andando a posto. E se le indagini sugli scheletri della pizzeria iniziavano a convergere, rimanere distanti sarebbe stato piuttosto difficile.
C'est la vie. Mi sarei comportata in modo professionale. Avrei fatto il mio lavoro. Dopodiché avrei augurato al tenente Andrew Ryan ogni bene e sarei andata oltre.
«Sì, in effetti lei è proprio così.» Ryan fece una risatina, quella tipica di un uomo che sente una battuta da un altro uomo su una donna.
Di nuovo mi sentii assalire dalla paranoia. Così come? E poi, chi era questa lei?
Lascia perdere, Brennan. Concentrati sul caso. Conserva tutte le tue energie per questo.
Ripensai alle ossa nella loro tomba anonima, e Ménard che comprava e vendeva al piano di sopra. Aggeggi elettronici rubati per pagare un buco. Cimeli di famiglia consegnati con riluttanza.
Immaginai Ménard nel Vermont, tra piselli e patate. Ménard in California, impegnato a studiare Struever, Binford, Buikstra e Fagan.
Un pensiero indefinito cercò di attirare la mia attenzione.
Chico.
«... sì, ce l'ho qui davanti» disse Ryan, girando il tovagliolino dalla sua parte per leggere l'indirizzo di Ménard.
Chico è nella California centrosettentrionale. Okay, questo lo so. Ma allora che cos'era, quel pensiero? Che cosa voleva dirmi?
C'era dell'altro. Ma che cosa?
«Andrà bene così» disse Ryan.
Charbonneau rispose qualcosa.
«Sì. Diamo al nostro uomo una bella torchiata e vediamo come reagisce.»
Ryan concluse la chiamata e mi passò il cellulare.
«Ti va di venire a fare due chiacchiere con il nostro uomo?»
«Ménard?»
Ryan annuì.
«Certamente.»
Il pensiero indefinito sembrò tornare da dove era venuto.
Mentre Ryan e io lasciavamo il ristorante, non avevamo idea che qualcuno ci stesse osservando.
26
La cartina di Montréal mi fa sempre venire in mente un piede, con l'aeroporto Dorval e i quartieri occidentali dell'isola che formano la caviglia, le dita che puntano verso est, e il tallone che si immerge nel fleuve San Lorenzo. Verdun forma il cuscinetto di grasso del calcagno, mentre Pointe-Saint-Charles potrebbe essere una cipolla che spunta dall'alluce.
La Punta si trova sotto il Lachine Canal e sopra lo scalo ferroviario. A est di questa zona si trovano il Vieux Montréal e il porto. Originariamente abitata dagli immigrati che lavoravano alla costruzione dei ponti di Montréal, la Punta ha una toponomastica che riflette la forte presenza irlandese di quell'epoca. Rue St-Patrick. Sullivan. Dublin. Mullins.
Ma questa ormai è storia. Oggi la Punta è una zona quasi interamente francese.
Una ventina di minuti dopo aver lasciato Lafleur, Ryan svoltò in Rue Wellington, la principale arteria est-ovest del quartiere. Superammo grandi negozi di articoli sportivi, saloni per tatuaggi, il negozio di abbigliamento MH Grover, da decenni un'istituzione, in questa via. Qui e là, incontravamo affollati caffè che interrompevano la lunga fila dei negozi.
Ryan si fermò nel punto in cui Rue Dublin si unisce a Rue Wellington, sulla sinistra. A destra, una fila di case in stile vittoriano apparivano incongruamente allegre, con i loro colori pastello, le decorazioni di legno intagliato, gli archi in mattoni e le finestre di vetro colorato. Sul vetro lattiginoso di un portoncino lessi la scritta DOTTOR GEORGE HALL.
Ryan notò il mio sguardo incuriosito.
«Dottor Baruffa» disse. «Costruito da un gruppo di medici ricchi sfondati bisognosi di abitazioni prestigiose. Anche se da allora il quartiere è un po' cambiato.»
«Sono ancora case private?»
«Credo che adesso siano suddivise in tanti appartamenti.»
«Dov'è Rue Sébastopol?»
Ryan indicò con la testa verso sinistra. «È un vero labirinto, laggiù. Un sacco di vicoli ciechi e sensi unici. Credo che Rue Sébastopol fiancheggi un lato dello scalo ferroviario.»
Mentre Ryan svoltava in Rue Dublin, notai un'indicazione storica.
«Che cos'è il Parc Marguerite-Bourgeois?»
«Mon dieu, madame la Docteur... Stai parlando di una delle signore più amate del Québec. Sorella Maggie nel Diciassettesimo secolo apriva scuole per bambine. Un'idea piuttosto rivoluzionaria per il Québec dell'epoca. Ha anche fondato l'ordine delle Soeurs de la Congrégation de Nôtre-Dame. Qualche anno fa, è stato avviato il processo di beatificazione.»
«Perché quel cartello?»
«Perché intorno alla metà del 1600, Marguerite Bourgeois ricevette una sostanziosa porzione di questa piccola penisola. Poco alla volta, le suore vendettero la terra, e Pointe-Saint-Charles oggi occupa gran parte di quel terreno. Ma la scuola originaria fatta costruire da Marguerite si trova un po' più avanti, e oggi è diventata un museo.»
«Maison Saint-Gabriel?»
Ryan annuì.
Nel quartiere la rimozione della neve era stata alquanto sommaria, e i marciapiedi erano occupati da grossi cumuli bianchi. Le auto parcheggiate, inoltre, avevano meno spazio del solito, e tendevano a sporgere molto verso le corsie di marcia. Ryan guidava lentamente, tenendosi lontano dalla destra per evitare il traffico in entrata. Mentre entravamo sempre di più nella Punta, mi guardai intorno per conoscere meglio il circondario.
L'architettura era un miscuglio di edifici del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, gran parte dei quali sembravano destinati in origine ai lavoratori del ceto operaio. Molte vie erano fiancheggiate da case di mattoni a un piano, non intonacate, con la porta d'ingresso che si apriva direttamente sul marciapiede. Altre vie tendevano maggiormente verso la pietra calcarea grossolanamente sbozzata. Gli edifici erano in gran parte spogli, senza rifiniture particolari, e solo alcuni esibivano cornicioni, false mansarde e abbaini in legno intagliato.
Confusi tra l'architettura di due secoli fa, notai alcuni edifici a due piani suddivisi in tre o sei unità costruiti all'inizio del Ventesimo secolo. Qui, gli architetti erano stati più generosi, e avevano concesso minuscoli giardinetti, ingressi più riparati, facciate in mattoni tinteggiate in giallo, beige o marrone, e scale esterne che portavano ai ballatoi del primo e secondo piano.
Vicino all'ingresso della Maison Saint-Gabriel, superammo alcune mostruosità a quattro piani, frutto probabilmente della tristezza postbellica, con ingressi sormontati da tettoie di plastica o di cemento. Gli architetti di questi obbrobri probabilmente mettevano la funzionalità al primo posto, e ai posti successivi nient'altro. E pazienza per il Feng Shui.
Dopo una serie di svolte, Ryan prese a destra e ci trovammo in Rue Sébastopol. Alla nostra sinistra avevamo lo scalo ferroviario, seminascosto da una recinzione alta almeno due metri e siepi di sempreverdi. Attraverso i rami riuscii a distinguere file e file di vagoni merci.
La neve scricchiolò sotto gli pneumatici, mentre Ryan rallentava. Quando fermò l'auto ci guardammo intorno in silenzio.
A metà isolato, una serie di case in mattoni non intonacate si allineavano lungo il marciapiede, dando la sensazione di stringersi le une alle altre in cerca di sostegno. O di calore.
Oltre questa fila di case, notai un vuoto, e poi una confusione di strutture in cemento coperte di graffiti sui muri esterni. A destra, un capannone fatiscente circondato da un recinto decrepito, e all'interno del recinto un cane, che subito notò la nostra presenza e iniziò ad abbaiare.
File di alberi spogli salivano fino ai cavi delle linee elettriche, e cumuli di neve si ammonticchiavano sui marciapiedi sporchi di fango.
Rue Sébastopol era una delle tante vie tutte uguali della Punta.
Ma in un certo senso, più cupa.
Più isolata.
Alla nostra sinistra si spalancava il vasto terreno disabitato dello scalo ferroviario. Alle nostre spalle, avevamo l'unico accesso per veicoli alla via.
Mentre osservavamo la lunghezza dell'isolato, ebbi un oscuro presentimento.
Ryan indicò con un cenno la fila di case. «Questa è Sébastopol Row, costruita nel 1850 dalla Grand Trunk Railway.»
«Sembra che le ferrovie non badassero granché all'estetica.»
Ryan prese il tovagliolo dalla tasca, controllò l'indirizzo e avanzò verso la prima casa per verificare il numero civico.
Il cane smise di abbaiare, si alzò sulle zampe anteriori e controllò i nostri movimenti.
«Che numero è?»
Ryan me lo disse.
«Dev'essere più avanti.»
Proseguimmo, e intanto io controllai tutti i numeri che incontravamo. Ma la numerazione sulla fila di case non cresceva abbastanza, e il numero sulla prima struttura in cemento indicava che eravamo andati oltre.
«Forse la casa non si affaccia sul marciapiede, ma è più interna, verso quella zona vuota» suggerii.
Ryan invertì il senso di marcia e parcheggiò di fronte all'ultimo edificio della fila di case.
Una sagoma era vagamente visibile oltre gli alberi spogli e i folti rami dei pini.
«Pronta?» Ryan prese i guanti dal sedile posteriore.
«Pronta.»
Io infilai le muffole e uscii. Quando sentì il rumore delle portiere, il cane riprese ad abbaiare.
Ryan percorse una stradina coperta di ghiaccio che si trovava a circa un metro e mezzo oltre il muro esterno dell'ultima casa della fila. Rami spogli e rami di sempreverdi oscuravano la vista del cielo, dando la sensazione di entrare in una galleria.
L'aria profumava di pino, di fumo di carbone e di qualcosa di organico.
«Che cos'è questo odore?» sussurrai.
«Sterco di cavallo» rispose Ryan, anche lui sottovoce. «Il cagnaccio fa la guardia a una scuderia di cavalli da calesse.»
«Quelli che tirano i calèche nel centro storico?»
«Proprio quelli.»
Annusai ancora.
Può darsi. Ma c'era anche qualcos'altro.
Ryan e io percorremmo con grande attenzione il vialetto dal fondo irregolare, e ci tirammo su il bavero per proteggerci dal freddo pungente.
A dieci metri da Rue Sébastopol, il vicolo piegava bruscamente sulla sinistra e Ryan e io ci trovammo di fronte a un fatiscente edificio in mattoni rossi. Ci fermammo e leggemmo i numeri arrugginiti sopra la porta d'ingresso.
«Ci siamo» disse Ryan.
L'ingresso era rientrato, la porta era malandata e vecchia, ma intagliata con motivi ornamentali. Le finestre erano opache, alcune buie, altre bianche per il ghiaccio e per la neve accumulata sui vetri per via del vento.
Piante di rampicanti secche disegnavano una sorta di ragnatela su muri e tetto, e un davanzale di legno sembrava sul punto di staccarsi dalla intelaiatura della finestra. Qui i pini erano più folti e creavano intorno alla casa e all'angusto cortile un'ombra ancora più fitta.
Obbedendo a un impulso del tutto irrazionale, la peluria alla base del collo si sollevò.
Inspirai a fondo, e cercai di mantenere la massima calma.
Ryan raggiunse la porta. Io lo seguii.
Il campanello era in ottone, uno di quei vecchi campanelli che suonavano quando ruotati in senso orario. Ryan procedette.
All'interno della casa, risuonò un trillo.
Ryan attese un minuto buono, poi suonò ancora.
Dopo qualche secondo la serratura girò e la porta si scostò di qualche centimetro.
Ryan mostrò il distintivo attraverso la fessura.
«Il signor Ménard?» domandò in inglese.
La fessura non si allargò. Non riuscivo a vedere la persona dietro la porta.
«Stephen Ménard?» ripeté Ryan.
«Qu'est-ce que vous voulez?» Pronunciato con forte accento americano.
«Polizia, signor Ménard. Vorremmo parlare con lei» insisté Ryan in inglese.
«Laissez-moi tranquille.»
La porta fece per chiudersi. Ryan la bloccò con un gesto fulmineo.
«Lei è Stephen Ménard?»
«Je m'appelle Stéphane Ménard» rispose l'uomo pronunciando il suo nome in francese. «Qui êtes-vous?»
«Sono il tenente Andrew Ryan.» E indicando me, aggiunse: «E questa è la dottoressa Temperance Brennan. Dobbiamo parlare con lei».
«Allez-vous en!» La voce suonava aspra, e quasi fragile. Io continuavo a non vedere il suo proprietario.
«Non abbiamo nessuna intenzione di andarcene, signor Ménard. Le consiglio di collaborare, e le nostre domande le ruberanno solo pochi minuti.»
Ménard non rispose.
«O se preferisce, la portiamo direttamente in centrale.» Il tono di Ryan era acciaio temperato.
«Tabernac!»
La porta si richiuse. Seguì un rumore di catenaccio, e poi si riaprì.
Ryan entrò per primo, io lo seguii. Il pavimento era coperto di linoleum, le pareti troppo scure per una stanza senza finestre. L'aria odorava di naftalina, di carta da pareti vecchia e di tessuto ammuffito.
Il minuscolo ingresso era illuminato da una piccola lampada in ceramica. Ménard era in ombra, vicino alla porta, una mano sulla maniglia e l'altra, premuta contro il petto, stringeva un tagliacarte d'ottone.
Quando Ménard chiuse la porta e si voltò verso di noi, per la prima volta riuscii a vederlo.
Stephen Ménard doveva essere sul metro e novanta. Con la testa calva e le lentiggini, era uno degli uomini più particolari che avessi mai visto. Avrebbe potuto avere quarant'anni portati male, oppure una sessantina portati molto bene.
«Qu'est-ce que vous voulez?» domandò ancora Ménard.
«Possiamo sederci?» replicò Ryan abbassando la cerniera del bomber.
Una scrollata di spalle. «N'importe.» Fate come volete.
Ménard ci accompagnò in un salottino buio come l'ingresso. Pesanti tendaggi rossi, secrétaire di mogano, tavolini. Tappezzeria floreale scura. Pezzi rivestiti in color prugna scuro.
Ménard posò il tagliacarte sul secrétaire e andò a sedersi sul divano, accavallando subito le gambe. Io mi tolsi il giaccone e mi accomodai su una poltrona, alla sua destra.
Ryan fece il giro della stanza e accese il lampadario e un paio di lampade di ottone e cristallo accanto al divano. Il miglioramento dell'illuminazione ci permise di valutare meglio il padrone di casa.
Stephen Ménard non era solo calvo, era totalmente glabro. Niente basette. Niente ciglia. Nessun pelo sul corpo. Questa caratteristica gli conferiva un'aria levigata e stranamente pallida. Mi chiesi se la mancanza di peli fosse una caratteristica genetica o un look bizzarro creato intenzionalmente.
Ryan prese una sedia imbottita da dietro il secrétaire e la sistemò di fronte a Ménard, ricorrendo di proposito a un body language mirato a innervosire. Una volta seduto, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse in avanti, con la faccia a meno di un metro da quella di Ménard.
Il nostro riluttante ospite era in ciabatte, e indossava jeans e felpa con le maniche alzate fino ai gomiti. Ritraendosi da Ryan, Ménard riabbassò le maniche fino ai polsi, le rialzò, si aggiustò gli occhiali, e attese.
«Voglio essere sincero, con lei, signor Ménard. Purtroppo ha attirato la nostra attenzione.»
«Je suis...»
«Mi sembra di aver capito che lei è americano, quindi l'inglese non dovrebbe essere un problema per lei, giusto?»
Ménard fece per replicare, ma poi rinunciò.
«Il signor Richard Cyr ci ha riferito che fino a qualche anno fa lei ha gestito un banco dei pegni in un locale di sua proprietà in Rue Ste-Catherine.»
Le labbra di Ménard si fecero sottili come un ago, e una ruga si formò nel punto in cui avrebbe dovuto avere le sopracciglia.
«Per caso la infastidisce il fatto che le faccia questa domanda?»
Ménard si sfiorò la guancia con la mano e si riaggiustò gli occhiali.
«Un'attività piuttosto redditizia. Quanto è andata avanti? Nove anni? Lei è un uomo giovane. Come mai ha deciso di chiudere il banco dei pegni?»
«Non era un semplice monte dei pegni. Trattavo anche articoli da collezionismo.»
«Potrebbe spiegarsi meglio?»
«Aiutavo i collezionisti a trovare i pezzi più difficili. Francobolli. Monete. Soldatini.»
Avevo già visto Ryan interrogare i sospetti, in passato. Ci sapeva fare con il silenzio. La persona interrogata concludeva la sua risposta, e lui, invece di passare alla domanda successiva, guardava la persona con aria interrogativa e aspettava. Proprio come fece in quel momento.
Ménard deglutì.
Ryan attese.
«Era un'attività perfettamente legale» mormorò Ménard.
Da qualche parte all'interno della casa mi sembrò di sentire una porta aprirsi e richiudersi.
«Ma poi le cose si sono complicate. Gli affari hanno iniziato a diminuire. L'affitto è aumentato. Così ho deciso di non continuare.»
«In che senso, si sono complicate?»
«Semplicemente si sono fatte più complicate. Senta, tenente. Io sono un cittadino canadese. E so quali sono i miei diritti.»
«Le sto solo facendo qualche domanda, signor Ménard.»
Reggere lo sguardo di Ryan era diventato piuttosto difficile per Ménard. I suoi occhi continuavano a rimbalzare dalle sue mani a quelle di Ryan, e ritorno.
Ryan si concesse un'altra lunga pausa. E poi: «Perché ha lasciato perdere l'archeologia?».
«Di che cosa sta parlando?»
«Che cosa è successo a Chico?»
Un'idea prese a vagarmi per la mente. Non la inseguii.
«Avete un mandato?» domandò Ménard, aggiustandosi per l'ennesima volta gli occhiali.
«No, signore» rispose Ryan.
Lo sguardo di Ménard si spostò oltre le spalle di Ryan. Ci voltammo entrambi.
Sulla soglia, si era fermata una donna. Era alta e sottile, con la pelle color avorio e una lunga treccia nera. Valutai che dovesse avere tra i venticinque e i trent'anni.
Le zampe di gallina ai lati degli occhi di Ménard si contrassero.
La donna si irrigidì così visibilmente che sembrò quasi trasalire. Poi si cinse la vita con le braccia e sgusciò via.
Ménard si alzò in piedi.
«Non ho intenzione di rispondere ad altre domande. O mi arrestate, o uscite da casa mia.»
Ryan non si affrettò ad alzarsi.
«Per caso c'è qualche motivo per cui dovremmo arrestarla, signor Ménard?»
«Ovviamente no.»
«Bene.»
Ryan si chiuse la cerniera del bomber. Io infilai il mio giaccone e mi avviai verso l'ingresso. Quando passai accanto al secrétaire, notai il tagliacarte.
Con la coda dell'occhio, vidi Ryan avvicinare la faccia a quella di Ménard.
«Per il momento faremo come vuole lei, signore. Ma se per caso ci sta tenendo all'oscuro di qualcosa, può star certo che se ne pentirà.»
Questa volta Ménard guardò Ryan negli occhi e per qualche secondo i due rimasero faccia a faccia.
Io, intanto, mi voltai dando la schiena a Ryan e Ménard e furtivamente infilai il tagliacarte in borsetta.
27
«Allora, che ne pensi?» mi chiese Ryan lasciando Rue Sébastopol.
«Se per caso decidessero di ripristinare l'Inquisizione, tu saresti il primo a essere assunto.»
«Lo considero un complimento. Che ne dici di Ménard?»
«Quel tipo mi fa venire i brividi. Credi che la totale mancanza di peli sia una condizione clinica?»
Ryan scosse la testa. «Ho visto che ha dei segni sul cuoio capelluto.»
«Ma perché un uomo dovrebbe rasarsi e togliersi tutti i peli?»
«Un fan di Telly Savalas?»
«Li avrà tolti su tutto il corpo?»
«Vuol tagliare sulle spese delle shampoo?»
«Ryan...»
«No. Forse si sta allenando per i prossimi mondiali di nuoto.»
Dopo questa battuta, non ottenne risposta.
«Non lo so. Un fuori di testa maniaco del look? Pidocchi? Una qualche fobia nei confronti dei peli?»
«Ti sei accorto dello strano comportamento di quella donna?»
«Sì. In effetti non è venuta a offrirci il tè.»
«Sembrava terrorizzata.»
Ryan scrollò le spalle. «Forse. O forse la signora detesta ricevere ospiti inattesi.»
«Claudel dice che in quella casa non dovrebbe viverci nessun altro. Chi potrebbe essere quella donna?»
«Non lo so, ma intendo scoprirlo.»
Gli dissi del tagliacarte.
«Appropriazione indebita.»
«Già» confermai.
«Un giudice escluderebbe qualsiasi informazione derivante da quell'oggetto.»
«Già. Ma un'impronta digitale potrebbe identificare la donna.»
«Potrebbe.»
«Insomma, l'ho fatto d'istinto. Il tagliacarte era lì, abbandonato. Ho pensato che la donna forse l'aveva toccato. E diciamo che l'ho preso in prestito.»
«Ah.»
«Guarda che intendo restituirlo.»
«Non ne ho mai dubitato.»
Il sole iniziava la sua lenta discesa, e il parabrezza era opaco per gli schizzi salati che arrivavano dalle ruote delle automobili che ci precedevano. Ryan si concentrò sulla guida e nell'abitacolo ancora una volta calò il silenzio.
«Potrebbe spiegare i bottoni antichi» dissi, mentre attraversavamo il Lachine Canal e svoltavamo su Rue de la Montagne.
«Potrebbe.»
D'un tratto mi venne in mente una cosa.
«Il falso» dissi, voltandomi verso Ryan.
«Credi che Ménard stesse aiutando i suoi clienti a rimpolpare le loro collezioni con qualche oggettino autoprodotto?»
Mi venne in mente un'altra cosa.
«O forse Ménard ha ritrovato gli scheletri per caso, e non ha detto niente a nessuno pensando che magari un giorno avrebbe potuto rivendere le ossa a un collezionista. Sono piuttosto sicura che in Canada rivendere parti dello scheletro umano sia illegale.»
«Un'altra possibilità.»
«Eppure il mio istinto mi dice che c'è di più.»
«Se il nostro uomo ha qualcosa da nascondere, lo scoprirò.»
«Ménard non era affatto contento di vederci.»
«Trasmetteva il calore di una sala d'autopsia. Il che mi ricorda che non so dove devo portarti.»
«In Istituto.»
Chiamai a casa per sapere quali fossero i programmi di Anne, ma non mi rispose nessuno. Lasciai un messaggio chiedendole di richiamarmi.
Venti minuti dopo ero seduta alla scrivania del mio ufficio.
Ryan aveva promesso di portare il tagliacarte al laboratorio della Scientifica. Se avessero trovato impronte significative, lui o un tecnico del laboratorio mi avrebbero richiamato.
Da quando la conoscevo, Anne aveva sempre sostenuto di detestare la cucina indiana. La richiamai per proporle di cenare a La Maison du Cari, sicura che il loro agnello korma le avrebbe fatto cambiare idea.
Di nuovo nessuna risposta. Secondo messaggio per lei.
Sulla scrivania trovai due stampate. La più lunga era l'elenco delle ragazze in Québec. La più corta la lista di Charbonneau delle ragazze scomparse nella California centrosettentrionale.
Iniziai con la prima.
Uno a uno, studiai tutti i nomi, escludendo le ragazze il cui profilo non corrispondeva con quello degli scheletri della pizzeria. Quando arrivai a Manon Violette, iniziavo a sentire le prime avvisaglie di un violento mal di testa.
Manon Violette aveva un canino superiore destro ruotato e nessuna otturazione.
Mi sporsi in avanti, agitata da un improvviso senso di ansia.
La ragazza nella cassa di Dottor Energy aveva un canino superiore destro ruotato e nessuna otturazione.
Senza quasi riuscire a respirare lessi gli altri particolari.
Manon Violette era scomparsa nove anni prima, dopo avere lasciato la sua casa di Longueuil per prendere l'autobus verso Centre-Ville.
Violette era bianca.
Violette aveva quindici anni.
L'informazione successiva fu come un pugno in pieno petto.
Manon Violette era alta un metro e settanta.
Maledizione!
Avevo stimato che la statura della ragazza nella cassa di Dottor Energy doveva essere intorno al metro e cinquanta.
Possibile che mi fossi sbagliata di tanto?
Schizzai in laboratorio e controllai.
Niente da fare. La ragazza nella cassa era piccolina.
E quella del caso 38427? Avevo calcolato che doveva avere tra i quindici e i diciassette anni e che la sua statura doveva essere tra il metro e sessanta e il metro e sessantotto.
Presi il cranio e controllai i denti.
Il sogno di ogni dentista. Allineamento perfetto. Nessuna rotazione.
Tornai alla lista.
Un'ora dopo posai il foglio, in preda alla frustrazione.
Detestavo ammetterlo, ma Claudel aveva ragione. Non c'era nessun profilo corrispondente a quello degli scheletri. Se c'era l'altezza, mancava l'età. Se c'erano altezza ed età, la possibile candidata era esclusa a causa della razza o di qualche altra caratteristica.
Nessun delle persone scomparse del Québec, e solo una di quelle californiane, aveva subito una frattura di Colles al polso destro.
Durante il nostro ultimo incontro, Claudel aveva fatto riferimento alla ragazza californiana. Lessi il suo profilo.
Nel 1985 un certo Leonard Alexander Robinson denunciò la scomparsa della ragazza presso l'ufficio dello sceriffo della contea di Tehama. La figlia di Robinson, Angela, una ragazza bianca, di quattordici anni e nove mesi, aveva lasciato la sua casa la notte del 21 ottobre e non era mai più ricomparsa. Gli amici avevano dichiarato che voleva andare a una festa in autostop.
Angela Robinson, «Angie», era caduta dall'altalena a otto anni e si era fratturata il polso destro.
Angie era alta un metro e cinquantacinque.
Tornai in laboratorio per ricontrollare le mie misurazioni.
Angie Robinson era troppo giovane per essere la ragazza nell'involucro di pelle.
E troppo bassa.
Ero scoraggiata, e il mal di testa stava aumentando a ritmi supersonici. E se Angie non fosse morta subito dopo la denuncia della sua scomparsa? In questo caso sarebbe diventata più grande. E magari anche più alta.
Di nuovo, il mio inconscio sembrò voler attirare la mia attenzione.
Che cosa?
L'orologio diceva cinque e dieci. Decisi di mettere fine alla mia giornata di lavoro.
Tornai in ufficio e chiamai Anne.
Nessuna risposta.
Stavo abbassando la cornetta quando qualcuno bussò alla porta.
«Salve, dottoressa.» Charbonneau vestito di sintetico da capo a piedi. E stivali da cowboy.
«Salve.»
«Stavo per andare via, ma ho pensato di fare un salto da lei per scambiarci le ultime news...»
Con quello che rimaneva delle mie funzioni cerebrali cercai di decifrare il linguaggio del tenente. «News»?
Charbonneau si tolse di bocca un'enorme gomma da masticare e mi chiese con un cenno della testa dove fosse il cestino della carta.
Gli porsi un post-it.
Charbonneau avvolse la gomma e la lanciò nel cestino.
«Ryan mi ha detto della vostra visita a sorpresa nella tana di Ménard. Pare che il tipo sia un articolo molto interessante.»
«Già.»
Mi massaggiai delicatamente le tempie con la base delle dita.
«Mal di testa?»
Annuii.
«Provi a mangiare qualcosa di molto piccante. Con me funziona.»
«Grazie. Proverò.»
«Per quanto mi riguarda, non ho grandi novità da dirle. Ménard non ha nessun precedente in California. Però ho una precisazione sulla sua carriera accademica. Il nostro uomo non è stato sbattuto fuori, perché si è regolarmente iscritto al secondo anno, a Chico.»
«E poi?»
«Non si è fatto vedere.»
Smisi di massaggiarmi. «Ménard ha pagato l'iscrizione, si è iscritto ai corsi e poi non si è mai presentato?»
«Proprio così.»
«Perché?»
Charbonneau scrollò le spalle. «Non si sa. Il nostro uomo non si è più fatto vivo.»
«Ha chiuso eventuali conti in banca? Ha abitato nella casa dove stava fino alla scadenza del contratto d'affitto?»
«Su questo, ci sto ancora lavorando.»
«E dov'è stato prima di arrivare nel Vermont in gennaio?»
Charbonneau sorrise. «Sto lavorando anche su questo.»
Quando arrivai a casa, il mio appartamento era immerso nel buio. Birdie stava dormendo sul divano. Quando accesi la luce, sollevò il muso e strizzò gli occhi.
«Anne?» chiamai a voce alta.
Nessuna risposta.
Birdie si stiracchiò, saltò sul pavimento e si mise a pancia in su.
«Anne?» chiamai ancora, mentre accarezzavo la pancia del mio gatto.
Silenzio.
«Dov'è andata, Birdie?»
Il gatto rotolò sul dorso, si alzò, allungò le zampe posteriori e trotterellò in cucina. Dopo qualche secondo sentii rumore di croccantini.
«Annie?»
La porta della sua stanza era ancora chiusa. Bussai ed entrai.
E il cuore mi salì in gola.
La roba di Anne non c'era più. Sulla scrivania c'era un biglietto.
Lo fissai per qualche secondo. Poi aprii il foglio.
Carissima Tempe,
non ho parole per dirti quanto ho apprezzato la tua pazienza e le tue premure. Non mi riferisco solo a questa settimana, ma a tutti gli anni della nostra meravigliosa, felice, preziosa amicizia. Sei sempre stata il mio sostegno, il vento delle mie ali. (Ricordi il «nostro» film?) Noi due siamo simili in tante cose. Per esempio, nemmeno sono brava a parlare dei miei sentimenti. E non sono nemmeno brava a pensare ai miei sentimenti. Tu eri perfetta per me.
Ma ora è tempo di prendere in mano la situazione. Anche se non sono mai riuscita a dirtelo, sappi che ti voglio un bene infinito. Ti prego, non essere arrabbiata con me perché ho deciso di fare in questo modo.
Anne
Mi sentii assalire da una girandola di emozioni.
Amore. Conoscevo la mia amica e capivo com'era stato difficile per lei scrivere quelle parole.
Colpa. Sprofondata nei miei problemi, non mi ero occupata a sufficienza di Anne. Come avevo potuto essere così egoista?
Rabbia. Aveva fatto i bagagli e se n'era andata senza dirmi niente. Perché era stata così insensibile?
E poi arrivò la paura.
Era tornata a casa? Quale situazione doveva prendere in mano? Aveva deciso di fare in quale modo?
Mi venne in mente il libro che Anne stava leggendo la sera prima, e la nostra conversazione durante la cena. Però non mi aveva detto di volere andar via.
Che cosa aveva detto? Qualcosa sui cicli e sul cambiare nella sostanza. E poi l'avevo interrotta.
Gesù santo! Per caso non stava parlando di morte? Impossibile. Depressa o no, Anne non era tipo da suicidio. Ma potevo veramente escluderlo?
Un ricordo mi attraversò la mente. Un'altra amica che avevo ospitato in quella stanza, era andata via e l'avevamo ritrovata morta. Possibile che Anne si fosse imbarcata in qualche impresa ad alto rischio?
La chiamai al cellulare. Nessuna risposta.
Chiamai Tom.
«Pronto?»
«Anne è lì?»
«Tempe?»
«Anne è rientrata a casa?»
«Veramente, pensavo fosse da te.»
«È andata via.» Lessi a Tom il suo biglietto.
«A che cosa si riferisce?»
«Non sono sicura.»
«So che era piuttosto arrabbiata con me.»
«Sì.»
«Non credi che stia facendo una pazzia, vero?»
La stessa domanda si era affacciata anche alla mia mente.
«Ha chiamato?»
«No.»
«Chiama tutte le linee aeree. Controlla se ha prenotato un volo per Charlotte.»
«Non credo proprio che me lo dicano.»
«Caspita, Tom. Inventati qualcosa.» Stavo quasi piangendo. «Racconta una palla! Fatti venire in mente qualcosa.»
«Va bene. D'accordo.»
«E chiamami appena hai qualche novità.»
«Anche tu.»
Mentre avevo ancora la cornetta in mano, colsi un'immagine di me stessa riflessa nello specchio appena sostituito della sala da pranzo.
Il corpo teso, la faccia un ovale bianco spaventato.
Come Anne in corridoio, la sera del furto in casa mia.
Santo cielo! Speriamo che stia bene.
Che fare? Telefonare alle compagnie aeree? No, ci pensava Tom. Agli autonoleggi? Ai taxi? Alla polizia?
Stavo esagerando? Forse Anne voleva semplicemente stare un po' per conto suo. Forse dovevo solo stare tranquilla e aspettare.
Ma Anne aveva lasciato un biglietto. Aveva in mente di fare qualcosa. Ma che cosa?
Il telefono mi squillò tra le mani e io sobbalzai per la tensione.
«Anne?»
«Sono io.» Ryan doveva aver colto la tensione nella mia voce. «Che succede?»
Gli raccontai dell'improvvisa partenza di Anne.
«Nel biglietto dice che tornava a casa?»
«No.»
«Ha chiamato qualcuno?»
«Il mio telefono non registra le telefonate in uscita.»
«E nemmeno quelle in entrate. E non dice da chi arrivano le chiamate. Dovresti aggiornarti un po', Tempe.»
«Grazie per la consulenza tecnica.»
«Farò qualche indagine.»
«Grazie. Ryan?»
«Sì?»
«Anne era molto giù.»
«Ha preso le sue cose. Questo è un buon segno.»
«Sì.» Non ci avevo pensato.
Pausa.
«Vuoi che venga lì da te.»
Sì.
«No, grazie. Non ti preoccupare. A proposito, perché hai chiamato?»
«Perché la Scientifica è riuscita a prendere le impronte digitali dal tagliacarte. Di due persone.»
«Ménard e la donna.»
«Indovinato solo a metà.»
«In che senso?»
«Nel senso che il tizio non è Ménard.»
28
Le impronte sono state lasciate da due persone diverse. E nessuna delle due è Ménard.»
«Sei sicuro?»
«Ho mandato tutti i risultati nel Vermont. I tecnici del loro laboratorio hanno confrontato le latenti lasciate sul tagliacarte con quelle rilevate quando Ménard era stato fermato per guida in stato di ebrezza.»
«Ma Ménard l'ho visto io con il tagliacarte in mano.» Non riuscivo a credere a ciò che Ryan mi stava dicendo.
«No. Tu hai visto il tizio della casa con il tagliacarte in mano. Ma quel tizio non è Ménard.»
«Le altre impronte corrispondono a qualcuno di noto?»
«No. Le stiamo confrontando con quelle del nostro database. Ma pensiamo di mandarle anche negli Stati Uniti, per farle inserire nell'AFIS.»
L'AFIS, o Automated Fingerprints Information System, è una sorta di database delle impronte digitali.
«Ma se questo tizio non è Ménard, chi è?»
«Domanda eccezionalmente acuta, dottoressa Brennan.»
No, questa cosa non aveva senso. «Forse c'è stato un errore con le impronte digitali.»
«Succede.»
«Charbonneau ha una foto dell'annuario del college di Ménard. Portiamolo da Cyr e vediamo cosa dice.»
«Male non può fare» concordò Ryan.
Aspettai, quasi sperando che Ryan rinnovasse la sua offerta di venire da me. Ma non lo fece.
«Mi farò dare quella fot...» ma poi Ryan si interruppe.
Sentii una voce che poteva essere femminile in sottofondo, e poi il suono attutito di una cornetta telefonica coperta con la mano.
«Scusa.» Adesso la voce di Ryan era quasi un sussurro. «Mi faccio dare la foto da Charbonneau e ti passo a prendere alle otto.»
Riuscii a resistere per tutta una cena solitaria a base di pasta e di formaggio. Per tutto un lungo bagno caldo. Per tutto il telegiornale delle undici.
Ma poi, a letto, nel buio della mia stanza, una raffica di immagini mi bombardò la mente.
Uno scantinato sudicio. Delle ossa in una cassa. Delle ossa sepolte sotto il pavimento di terra battuta.
Una donna nel suo letto, i capelli grigi e scompigliati sulla faccia. Un materasso macchiato. Un corpo esanime sul tavolo di acciaio inossidabile.
Specchi in frantumi. Una scheggia conficcata in un quadro.
Anne con il suo bagaglio. Anne che mi guarda da sopra gli occhiali floreali.
Sentii un urlo nascermi nello stomaco, e poi rivoli caldi colarmi sul viso.
L'ultima volta che mi ero sentita così disperata, ero con Ryan. Ripensai a come lui mi aveva stretto fra le braccia, e mi aveva accarezzato la testa. Ripensai al suo cuore che batteva. A come mi aveva fatto sentire forte, bella, a come avevo creduto che tutto sarebbe andato bene.
Sentii il petto sollevarsi e un singhiozzo mi salì in gola.
Feci un lungo respiro, raccolsi le ginocchia sul petto e mi lasciai andare.
Un bel pianto è di gran lunga più terapeutico di un'ora con lo strizzacervelli.
Mi svegliai libera da ogni frustrazione e da ogni dolore.
Vivificata.
Con la situazione sotto controllo.
Finché, dodici ore dopo, non mi abbandonai a una crisi di nervi.
Tom chiamò alle sette per sapere se avevo notizie di Anne. Ma non ne avevo.
Era riuscito a scoprire che la moglie quella settimana non aveva prenotato nessun volo da Montréal per Charlotte. Io gli dissi che avevo parlato con un tenente della SQ.
Tom suggerì che probabilmente Anne voleva stare un po' per conto suo per riflettere, e presto avrebbe fatto avere sue notizie. Dissi che forse aveva ragione. Avevamo tutti e due bisogno di crederlo.
Quando abbassai la cornetta, ancora una volta i miei occhi si posarono sullo specchio del corridoio. Erano passati nove giorni da quando qualcuno era entrato in casa mia, e la polizia non aveva trovato niente.
D'un tratto mi venne in mente una cosa.
Il tizio del sedile 3C.
Gesù santo! Vuoi vedere che era scappata da qualche parte con quello sconosciuto incontrato in aereo? E chissà se quell'uomo era anche la stessa persona che aveva devastato casa mia.
Un altro ricordo.
La pattuglia di sorveglianza messa da Ryan davanti a casa mia.
C'era ancora? Forse gli agenti di pattuglia avevano visto Anne andare via.
Improbabile, ma valeva la pena tentare.
Mi avvolsi nel giaccone e uscii.
Era un'altra giornata di cielo terso. La radio aveva previsto un breve innalzamento della temperatura. Ma di sicuro, alle sette e cinquantacinque, ancora non si sentiva.
Nel giro di una decina di minuti, davanti al mio isolato passò una volante. Uscii sul marciapiede e agitai la mano per farli fermare.
Sì, passavano ancora molto di frequente. Sì, la sua squadra aveva lavorato per tutta la settimana. No, non avevano visto una donna alta e bionda uscire in strada con molti bagagli. Mi promisero di chiedere ai colleghi dell'altro turno.
Rientrai nell'atrio, dove la temperatura consentiva almeno al sangue di circolare.
Ryan arrivò alle otto e dieci. Salii in auto. Sentii subito odore di fumo.
«Bonjour.»
«Bonjour.»
Ryan mi passò il fax della foto dell'annuario scolastico di Ménard. L'immagine era piccola e scura, e nella trasmissione via fax aveva perso tutto il colore e un po' di contrasto. Ma la faccia era ragionevolmente riconoscibile.
«Sembrerebbe Ménard» osservai.
«E un migliaio di altri tizi con capelli rossi, occhiali e lentiggini.»
In effetti...
«La tua amica si è fatta sentire?»
«No.»
Spostai i piedi. Abbassai la cerniera del giaccone. Non sapevo cosa fare con gli occhi. O con le gambe. O con le braccia. Mi sentivo goffa e a disagio vicino a Ryan. Non ero sicura di poter reggere una conversazione con lui.
«Brutta nottata?» mi domandò.
«Come mai questo improvviso interesse per le modalità del mio riposo?»
«Perché hai l'aria stanca.»
Guardai Ryan. Le ombre scure sotto i suoi occhi sembravano più profonde del solito, il viso più tirato.
Che caspita ti sta succedendo, avrei voluto domandargli.
«Diciamo che ho in ballo un bel po' di cose.»
Ryan mi appoggiò il dito sulla punta del naso. «Non è così per tutti?»
Venti minuti dopo arrivammo a casa di Cyr.
Ryan l'aveva avvertito con una telefonata, e Cyr aveva aperto al primo trillo di campanello. Questa volta era completamente vestito.
In soggiorno, Cyr si sedette sulla stessa poltrona reclinabile che aveva occupato durante la mia visita con Anne.
Presentai Ryan e lasciai che fosse lui a parlare.
«Monsieur Cyr, nous avons...»
«Parli pure inglese, per la graziosa signora.» Cyr mi sorrise. «Dov'è oggi la sua bella amica?»
«Anne è andata a casa.»
Cyr inclinò la testa. «È una vera bomba, quella ragazza.»
«Ci vorrà solo un momento.» Ryan prese il fax di tasca e lo porse a Cyr. «Questa persona è Stephen Ménard?»
«Chi?»
«Stéphane Ménard. L'uomo che gestiva il banco dei pegni nel suo edificio.»
Cyr guardò il fax.
«Tabernouche! Forse sembro ancora un giovanotto, ma ho pur sempre ottantadue anni!»
Cyr si alzò dalla poltrona, si avvicinò al televisore e lo accese. Poi prese una specie di grossa lente di ingrandimento collegata con un cavo al retro del televisore. Quindi premette un pulsante e osservò il fax.
Di colpo la faccia di Ménard comparve sullo schermo.
«Fantastico» esclamai.
«È il Videolupe. Un aggeggio davvero carino. Ingrandisce proiettando sullo schermo del televisore. Così posso leggere tutto quello che voglio.»
Cyr spostò la lente su tutta la foto, e poi si concentrò sull'orecchio di Ménard. L'immagine si ingrandì finché il margine superiore dell'elice occupava quasi tutto lo schermo.
«No.» Cyr raddrizzò la schiena. «Non è il vostro uomo.»
«E come può dirlo?» La sua sicurezza mi aveva sorpresa.
Cyr posò la lente, tornò alla poltrona e mi fece un segno con il dito.
Mi alzai.
«Vede questo?» Cyr si toccò un'escrescenza di cartilagine sul bordo esterno dell'orecchio.
«Un tubercolo di Darwin» dissi.
Cyr mi guardò stupito. «In gamba, la signora.»
Ryan ci osservava con aria perplessa.
«Non ho mai conosciuto nessuno con un bozzo come il mio, così una volta l'ho fatto vedere al dottore. E lui mi ha detto che era un tratto recessivo e mi ha dato da leggere qualche articolo.» Cyr si toccò di nuovo l'orecchio. «Lo sa perché si chiamano così, questi stronzetti?»
«Perché una volta si pensava che fossero un residuo dell'orecchio a punta dei quadrupedi.»
Cyr fece un saltello, deliziato dalla mia risposta.
«Che cosa c'entra tutto questo con Ménard?» intervenne Ryan.
«Ménard ha i più grossi tubercoli che io abbia mai visto. Lo prendevo addirittura in giro per questo. Gli dicevo che un giorno l'avrei visto brucare foglie su qualche albero, o mangiare piccole creature pelose nello scantinato. Ma lui non lo trovava affatto divertente.»
Ryan si alzò. «E l'uomo della fotografia?»
Cyr restituì il fax. «Niente protuberanze.»
Sulla porta, Ryan si fermò.
«Un'ultima domanda, signor Cyr. Lei e il signor Ménard siete rimasti in buoni rapporti?»
«Proprio per niente. L'ho sbattuto fuori.»
«Perché?»
«Perché mi ero stufato di tutte le lamentele che arrivano dagli altri inquilini.»
«Lamentele per che cosa?»
«Per lo più, clientela sgradevole. E poi perché faceva rumore di notte.»
«Che genere di rumore?»
«E che ne so. Fatto sta che continuavo ad avere queste lamentele e mi sono stufato.»
Ryan mi accompagnò fino a casa, poi si scusò ma disse che per quel fine settimana sarebbe stato di turno in centrale. Mi promise di telefonare se avesse avuto novità su Ménard o sulle altre impronte digitali. O per qualsiasi cosa riguardo Anne.
Non gli domandai se i suoi impegni di lavoro includevano anche il sabato sera.
Fottiti. Chi se ne frega?
La mia segreteria telefonica non aveva messaggi.
Katy voleva che fossi a Charlotte per il ventuno, perciò cercai di tenermi occupata sbrigando una serie di faccende che dovevo fare prima di partire.
Cambio delle lenzuola. Piante. Impacchettare i regali per il custode e i tecnici dell'Istituto.
E per Ryan?
Quello lo misi da parte.
Cercai anche di tenermi occupata con una serie di compiti che dovevano essere fatti comunque.
Bucato. Lettiera del gatto. Posta.
Cercai una stazione radio con un po' di musica natalizia, sperando che Jingle Bells e simili riuscissero a regalarmi un po' di umore natalizio.
Niente da fare. Non riuscivo a pensare ad altro che alle ossa che mi aspettavano in laboratorio, alle stampate sulla scrivania e a dove diavolo fosse finita Anne.
Alle tre, mi arresi e uscii per andare al Wilfrid-Derome.
Era un tipico sabato pomeriggio. I piani dell'Istituto erano deserti e immobili come una tomba.
Un modulo di Demande d'Expertise aspettava sul ripiano della mia scrivania.
Quattro mesi prima, un tecnico di ascensore era scomparso durante un sopralluogo in un palazzo di Côte Saint-Luc. Quel giovedì il suo cadavere decomposto era stato ritrovato nel Parc Angrignon di LaSalle. Le radiografie avevano rivelato la presenza di fratture multiple. Pelletier voleva che analizzassi i vari traumi, una volta che le ossa erano state ripulite.
Misi da parte il modulo, e presi la lista di Claudel.
Sopra di me, il tubo al neon ronzava. Fuori, le raffiche di vento colpivano le intelaiature delle finestre. Di tanto in tanto qualche particella ghiacciata ticchettava sui vetri.
Simone Badeau. Troppo vecchia.
Isabelle Lemieux. Otturazioni.
Marie-Lucilie d'Aquin. Nera.
Micheline Thibault. Troppo giovane.
Tawny McGee. Decisamente troppo giovane.
Céline Dallaire. Frattura alla clavicola a quattordici anni.
La lista proseguiva.
Dopo un'ora passai all'elenco di Charbonneau.
Jennifer Kay. Esther Anne Pigeon. Elaine Masse. Amy Fish. Theresa Perez.
Di tanto in tanto tornavo in laboratorio per controllare un osso, sperando di trovare qualche particolare che mi era sfuggito. E ogni volto rimanevo delusa.
Quando esaurii i nominativi, riesaminai l'elenco partendo dall'età. Poi dall'altezza. Infine dalla data della scomparsa.
Sapevo che mi stavo arrampicando sui vetri. Ma ero in preda a una sorta di ossessione. Non riuscivo a smettere.
In fondo al corridoio, sentii il rumore delle porte dell'uscita di sicurezza.
Luogo della scomparsa.
Terrebonne. Anjou. Gatineau. Beaconsfield.
Butte County. Tehama County. San Mateo County.
Alle sei mi interruppi, scoraggiata. Due ore e mezzo, e non avevo concluso niente.
Dal corridoio vuoto arrivò un rumore di passi. Probabilmente era LaManche. A parte me, il mio capo era l'unico che poteva trovarsi in Istituto un sabato pomeriggio.
Congratulazioni, Brennan. Hai la stessa vita sociale di un uomo di sessant'anni con sette nipoti.
Tornai agli elenchi.
Continuavo ad avere la netta sensazione che qualche nesso mi sfuggisse.
Ma quale?
I segni dei tagli?
Sui tre crani avevo rilevato i segni evidenti di uno strumento affilato. Sui resti della ragazza nell'involucro di cuoio, i tagli sembravano essere stati praticati postmortem. Negli altri due, antemortem, sull'osso fresco. In tutti e tre, i segni si limitavano alla regione auricolare.
Successione dei decessi?
La datazione al carbonio 14 indicava che la ragazza nell'involucro di cuoio era morta negli anni Ottanta, le altre due negli anni Novanta.
Luogo di origine?
Dall'analisi dell'isotopo di stronzio risultava che la ragazza nel cuoio poteva essere nata o vissuta durante l'infanzia nella California centrosettentrionale, per poi spostarsi in Québec o Vermont. Mentre le altre due potevano aver vissuto l'intera vita in Québec.
Forse.
E forse io stavo attribuendo troppo valore all'analisi dello stronzio. Forse la pista californiana era un vicolo cieco.
Un altro rumore di porte, poi il suono di alcune voci.
Però Ménard aveva frequentato un master all'università di Chico. E Chico si trovava nella California centrosettentrionale. Ménard aveva in affitto i locali in cui erano stati ritrovati i resti delle ragazze. E il periodo in cui li aveva affittati coincideva con la presunta data di morte di almeno due delle ragazze. Louise Parent lo aveva visto con due ragazze giovani in due occasioni diverse. E una delle ragazze scappava. L'altra sembrava svenuta.
La pista che portava in California era una mera coincidenza?
Nei meandri del mio cervello un pensiero vago si formò, poi scomparve.
Che cos'era?
Ma per quanto mi sforzassi, non riuscii a portare quel pensiero alla soglia cosciente.
Tornai a Ménard.
Quell'uomo era entrato in possesso della casa dei nonni a Montréal nel 1988.
Ma il tizio che adesso viveva in quella casa non era Ménard, anche se si spacciava per lui.
Gettai la penna sul ripiano della scrivania.
«Allora chi diavolo è, quell'uomo?»
«Non lo so.»
La voce mi fece sussultare.
Alzai lo sguardo e vidi Ryan sulla soglia della porta.
«Però abbiamo qualcosa sulla sua ragazza.»
29
«Anique Pomerleau.»
Con un cenno del dito gli chiesi di mostrarmi il foglio.
«Denuncia della scomparsa nel 1990.»
«Età?»
«Quindici anni.»
Corrispondeva. La donna a casa di Ménard sembrava avere tra i venticinque e i trent'anni.
«Nata dove?»
«Mascouche.»
«Cosa è successo?»
«La ragazzina aveva raccontato ai genitori che avrebbe passato il fine settimana con un'amica. In realtà le due ragazze avevano inventato una scusa per permettere ad Anique di uscire con il suo nuovo amichetto. Quando la domenica non è rientrata, i genitori hanno iniziato a cercarla. Il lunedì hanno denunciato la scomparsa. A quel punto Anique mancava da casa da almeno sessanta ore.»
«Non è mai arrivata a casa del fidanzato?»
«Sì. I due si sono fatti vedere in un paio di bar il venerdì sera. Hanno litigato. La ragazza se n'è andata infuriata. Ma il nostro latin lover è stato fortunato, perché ha passato il fine settimana con la fidanzatina numero due.»
«I poliziotti hanno creduto a questa versione?»
«È stata confermata dal gestore del bar e dalla fidanzatina numero due. Anique Pomerleau era una ragazzina difficile, che aveva tentato di fuggire di casa parecchie volte. I genitori hanno insistito nel dire che era stata rapita, ma la polizia ha ritenuto che fosse semplicemente scappata.»
«Hanno indagato?»
«Finché le piste non sono diventate vaghe.»
«È tutto?»
«Non proprio. Tre anni dopo, i Pomerleau hanno ricevuto una chiamata dalla piccola Anique. La ragazza diceva che stava bene, ma che non avrebbe rivelato dove si trovava.»
«Dev'essere stato uno shock, per i genitori.»
«Un paio di anni fa, il telefono squilla ancora. Stessa storia. Anique dice che sta bene, ma non una parola sul luogo in cui vive. L'ultima chiamata arriva nel '97, e nel frattempo il padre è morto.»
«Le impronte di Anique Pomerleau erano in archivio qui in Québec?»
Ryan annuì. «La ragazza ha diversi precedenti per reati minori. Vandalismo. Furto. Un incidente con un'auto rubata.»
Sentii l'agitazione affiorare in superficie. Ecco un altro aspetto della vicenda che non quadrava.
«Ma che diavolo ci fa Anique Pomerleau con Stephen Ménard?»
«Non è Ménard.»
«Ryan, non darmi lezioni.» Raccolsi la penna dalla scrivania, e la scagliai di nuovo sul ripiano. «Allora chiamiamolo Mister X. Monsieur X. Come mai la ragazza è finita con quel tipo?»
Puntai la penna verso Ryan.
«E perché non riusciamo a capire chi è il tipo? E dove invece si trova il vero Stephen Ménard? E quando c'è stato questo cambio di identità?»
«Ti va di venire a cena con me?»
«Cosa?»
«A cena.»
«Perché?»
«Perché vorrei parlarti.»
«Ma certo. Tu e Claudel potete parlare con me quando e dove volete, vero? A proposito, dove diavolo è finito, Claudel?»
Ryan fece per parlare, ma lo interruppi.
«Sono stufa marcia di Claudel e del suo atteggiamento se-ti-va-è-così-altrimenti-fottiti. Charbonneau è l'unico che mi tratta con un po' di rispetto.»
«Claudel ha il suo modo di fare.»
«Anche gli echinodermi hanno il loro modo di fare.»
«Sei molto dura nel giudicare Claudel. Che cosa sono gli echinodermi?»
A quel punto non riuscii più a trattenermi.
«Ah, è così? Secondo te sarei molto dura nel giudicarlo? Ma se fin dal primo giorno ho dovuto lottare per farmi prendere sul serio da quel damerino narcisista. Per farmi prendere sul serio da chiunque.»
Mi venne l'impulso di spezzare la penna.
«Le ossa sono troppo vecchie. La datazione al carbonio è costosa. Le ragazze erano solo puttane. Louise Parent è morta nel sonno. Le vecchie signore fanno così. Si sa che succede.»
«Io parlavo del cuscino sbavato.»
«Attento, Ryan.» Puntai la penna verso di lui. «Sappi che questo tuo atteggiamento simpatico e disinvolto non aiuta.»
«Tempe, ascolta...» Ryan fece per accarezzarmi. Io mi ritrassi.
«Ma certo. Dimenticavo. Tu mi ami. Ma tu ami anche un sacco di altre cose. Il formaggio di capra. La Guinness. I parrocchetti.»
La bocca di Ryan si aprì per dire qualcosa. Ma io ancora una volta lo interruppi.
«Giusto. Tu mi ami. Solo che non trovi un attimo di tempo per stare con me.»
Sentivo che tutta la frustrazione accumulata in quei giorni era sul punto di tracimare come un fiume in piena.
«E adesso, improvvisamente, sei libero per cena! Di sabato sera! Ma sono proprio una donna fortunata!»
Le parole continuarono a dilagare come acqua attraverso una saracinesca.
«Ma non dovevi essere in servizio? E con la tua "nipotina"» e misi la parole fra virgolette con le dita a uncino «come la mettiamo?»
Scagliai la penna contro il ripiano della scrivania, e l'oggetto rimbalzando schizzò verso Ryan. Lui d'istinto lo evitò deviandolo con la mano.
Scattai in piedi.
«Dio santo, scusami Ryan. Non intendevo affatto colpirti.»
Poi mi lasciai ricadere sulla sedia e mi presi la testa fra le mani. Le mie guance erano calde e bagnate.
«Cristo. Ma che cosa mi succede?»
Sentii una mano posarsi sulla mia spalla.
Mi asciugai le guance, mi spostai i capelli dietro le orecchie e alzai la testa.
Ryan mi stava guardando, i proverbiali occhi azzurri colmi di preoccupazione.
O di commiserazione?
O di che cosa?
«Scusami» dissi. «Non so perché mi sono lasciata andare così.»
«Siamo tutti sotto pressione.»
«Ma nessuno si trasforma in una furia come me.»
Mi accorsi della presenza di LaManche prima ancora di vederlo. Un leggero movimento alla periferia del mio campo visivo. L'odore del tabacco da pipa e di dopobarba da supermercato.
Il mio capo si schiarì la gola.
Ryan e io ci voltammo. LaManche era sulla soglia.
«Pensavo che vi avrebbe fatto piacere sapere che il coroner ha ufficialmente aperto un'inchiesta sulla morte di Lonise Parent per sospetto omicidio.»
«È stata soffocata?» domandai.
«Credo di sì.»
«Avete già i risultati degli esami tossicologici?» domandò Ryan.
«Tracce di sonniferi sono state trovate nelle urine e nel sangue. I livelli corrispondevano all'ingestione di dieci milligrammi alcune ore prima della morte.»
«E che cosa mi dice dei tempi?» domandò Ryan. «Avete stabilito se Louise Parent ha mangiato quella minestra per cena o per pranzo?»
«Dai tabulati telefonici risultano alcune chiamate partite dalla casa di Rose Fisher; e precisamente alle quindici e cinquantacinque, alle sedici e quindici e alle cinque e diciannove di quel venerdì. La prima era diretta al prete della donna, la seconda a una farmacia a due isolati da casa. La terza a un cellulare. Su quello stiamo ancora lavorando.»
Guardai Ryan. Nessuno mi aveva parlato di questo.
«Quindi il pasto di Louise Parent era la cena.»
«La minestra dovrebbe aver lasciato lo stomaco nel giro di tre ore. Il sonnifero dopo due» disse LaManche. «Il sonnifero dovrebbe essere stato sciolto nella camomilla.»
«Secondo la nipote, Louise Parent in genere cenava verso le sette. Supponendo che abbia fatto altrettanto anche venerdì, dovremmo arrivare alle dieci di sera» calcolò Ryan. «E supponendo che abbia preso il sonnifero prima di andare a letto, arriviamo alle undici o mezzanotte. Quindi la donna dovrebbe essere morta intorno alle prime ore di sabato.»
«Orario coerente con lo stato di decomposizione» osservò LaManche.
«La mia offerta è sempre valida» disse Ryan, appena LaManche ebbe lasciato l'ufficio.
«Quando hai saputo delle telefonate?» domandai.
«Oggi. È una delle cose di cui ti volevo parlare. Andiamo da Hurley's?»
Guardai Ryan a lungo, molto a lungo, poi sulle mie labbra si aprì un sorriso.
«A una condizione.»
Ryan allargò le braccia.
«Il conto è mio.»
«Urrà!» commentò Ryan.
Il pub Hurley's si trova in Rue Crescent, appena sotto Rue Sainte-Catherine. Mentre guidavo per raggiungere il luogo del mio appuntamento, cercai di valutare il da farsi: parcheggiare sotto casa e rischiare di morire assiderata mentre andavo da Hurley's a piedi, oppure morire di morte naturale mentre cercavo parcheggio vicino al pub?
Optai per l'assideramento. Ma mentre percorrevo quasi di corsa Rue Sainte-Catherine, la saggezza della mia scelta mi sollevò forti dubbi.
Ryan era seduto in un angolino nascosto, quando arrivai. Sul suo tavolo una pinta di birra consumata a metà. Ordinai stufato di agnello con una Perrier. Lui prese pollo alla Saint-Ambroise.
Mentre aspettavamo i nostri piatti, Ryan e io ci studiammo con circospezione. Cercammo anche di fare qualche battuta. Ma quasi tutte caddero nel vuoto.
Intorno a noi, turbinava la solita folla del sabato sera. Alcune persone sembravano felici. Altre disperate. Altre non sembravano niente. Chissà quali e quanti problemi si nascondevano dietro quelle facce, pensai.
Accanto a noi, una coppia sedeva più appiccicata di un calzino appena uscito dalla lavatrice. Lui portava un paio di corna di cervo di feltro rosso. Lei un maglione natalizio.
Mentre li guardavo, corna di feltro stuzzicò il collo di maglione natalizio. Lei rise.
Sembravano così felici. Così a loro agio l'uno con l'altra.
Gli occhi di maglione natalizio incontrarono i miei. Distolsi subito lo sguardo, e lo portai su un cartello sopra la testa di Ryan.
BIENVENU. WELCOME. FÁILTE. Qualcuno aveva appeso una ghirlanda di pino sul bordo superiore.
Una ragazza passò davanti al nostro tavolo, muovendosi con l'esagerata attenzione cui si ricorre per mascherare l'effetto dell'alcol. Aveva la pelle molto chiara e una lunga treccia nera.
Mi venne in mente Anique Pomerleau. Dov'era stata per quasi quindici anni? E perché adesso era con l'uomo che utilizzava l'identità di Ménard?
La cameriera ci portò le ordinazioni. Ryan prese un'altra birra. Io un'altra Perrier.
Mentre mangiavamo, la conversazione scivolò sul lavoro. Territorio neutro.
«Claudel è andato in Vermont.»
Sollevai le sopracciglia. «Per cercare il vero Ménard?»
Ryan annuì.
«E l'idea di chi è stata?»
«Claudel è un bravo poliziotto.»
«Ed è convinto che io sia un'idiota.»
«Io non starei con un'idiota.»
Ma tu non stai neanche con me, pensai. Ma non lo dissi.
«Tu pensi che questo falso Ménard abbia ucciso Louise Parent?» domandai.
«È una possibilità.»
«Direi una buona possibilità, no? Louise Parent mi ha chiamata per parlarmi di Ménard. E qualche giorno dopo qualcuno la fa fuori con un cuscino.»
Ryan non commentò.
«Ma questo falso Ménard come avrà scoperto che Louise Parent mi aveva cercata?»
«E noi come facciamo a saperlo?»
Non trovai risposta.
«Hai parlato con il vicino della SUV?»
«È pulito.»
«Continuo a pensare all'ultima notte di Louise Parent. Ai suoi ultimi pensieri. Alle ultime sensazioni. Secondo te, si è resa conto?»
«Non ci sono segni di colluttazione. Era stordita dal sonnifero.»
«Uno psicopatico dal sangue freddo ha trovato il modo di infilarsi in casa nel cuore della notte e ha soffocato Louise Parent con il cuscino della sorella. Secondo te, è possibile che abbia sentito la pressione sulla faccia? Annusato l'ammorbidente nel tessuto? Sentito il sapore delle piume? Provato una qualche forma di paura?»
«Ti prego, Tempe. Non farti del male in questo modo.»
«Non riesco a smettere di pensare alle sue ultime sensazioni.»
Per impedirmi di pensare alle tre ragazze sepolte nello scantinato. Ma non dissi nemmeno questo.
«C'è ancora qualcosa di cui non ti ho parlato.»
Aspettai che Ryan proseguisse.
«Louise Parent ha lasciato un immobile che vale quasi mezzo milione di dollari. Ed era assicurata per altri duecentocinquanta milioni.»
«Il beneficiario?»
«La sorella, Rose Fisher.»
Ryan mi riaccompagnò a casa verso le nove e mezzo. Non mi chiese di entrare. Io non lo invitai.
La segreteria telefonica era spenta e immobile.
Dove diavolo era finita Anne?
Doccia. Denti. Faccia.
A letto. Birdie saltò sulle coperte e si accoccolò accanto a me.
Cercai di leggere. Troppo agitata.
Chiusi il libro e spensi la luce.
Logoramento subliminale.
Mi girai dal fianco destro a quello sinistro. Di nuovo su quello destro.
Birdie scivolò nell'angolo del letto.
Non avevo mai desiderato bere come in quel momento. Che cosa poteva farmi un piccolo chardonnay?
Brennan, sei un'ex alcolista. E gli alcolisti non possono bere. Niente.
Colpii il cuscino. Mi voltai sulla schiena.
Rinunciai all'idea di dormire, e accesi il televisore con il telecomando. Trovai solo un'inutile sitcom.
Che cosa mi stava sfuggendo?
Anique Pomerleau era scomparsa da Mascouche nel 1990. Aveva quindici anni. Ma era viva e adesso viveva a Montréal.
Due delle ragazze della pizzeria avevano più o meno quindici anni. Quella nell'involucro di cuoio era più grande.
Angie Robinson era scomparsa nel 1988. Aveva quasi quindici anni. Diversamente da Anique Pomerleau, non era più ricomparsa.
Gli attori divennero sagome di uno spettacolo di ombre cinesi. I dialoghi e le risate registrate scivolarono in sottofondo.
Angie Robinson si era fratturata un polso. La ragazza dell'involucro di cuoio si era fratturata il polso. Ma l'età con corrispondeva. E nemmeno l'altezza.
Che cosa continuava a sfuggirmi?
Angie Robinson era scomparsa nella California centrosettentrionale. Non ricordavo il nome della località. Conners? Corners? Cornero?
C'entrava Butte County?
No. Quella era la contea di Chico.
Ménard aveva trascorso almeno un anno a Chico. Ma quale Ménard? Quello vero?
Il padre di Angie Robinson aveva denunciato la scomparsa della figlia presso l'ufficio della sceriffo della contea di Tehama.
Gettai via le coperte, mi alzai, e una volta acceso il computer mi collegai a Yahoo e richiesi una cartina della California centrosettentrionale.
La contea di Tehama si trovava a nord-ovest della contea di Butte. Trovai Chico, e quasi perfettamente sopra, il paesino di Corning.
Ingrandii quella porzione di cartina.
Comparve un reticolo di strade secondarie, e molte cittadine. Hamilton City. Willows. Orland.
Cliccai su una freccia e mi spostai a nord.
Red Bluff.
Il pensiero che giaceva nel mio inconscio arrivò a fuoco, poi scomparve di nuovo.
Red Bluff.
Che cosa?
Pensa, Brennan. Pensa.
Il più infinitesimo degli atomi di un'idea si affacciò alla mente.
Il nome di Red Bluff era salito agli onori della cronaca. Ma quando?
Dieci anni prima? Venti?
E perché?
Pensa!
Mi alzai e spensi il televisore. Poi gettai via il telecomando e presi a passeggiare su e giù per la stanza, sforzandomi con tutta me stessa di scendere nei recessi del mio inconscio.
L'appartamento era immerso nel silenzio. Non il piacevole silenzio dei momenti in cui ci si gode la propria solitudine. Un silenzio opprimente.
Avanti e indietro. Avanti e indietro.
Red Bluff. Red Bluff.
Infine, una pista che sembrava neutra, si spalancò davanti a me. Mi fermai.
Dio santo! Era proprio quello?
Volai al computer.
Chi era la vittima?
Utilizzai un motore di ricerca, e dopo una serie di labirintici link e connessioni, finalmente arrivai al nome che cercavo.
Altre ricerche.
Gli archivi del «Red Bluff Daily News».
Gli archivi del «Chico Examiner».
I consueti suoni della notte si ritirarono ai margini del mio udito. Birdie si appisolò.
Ore dopo, mi fermai, stordita dall'orrore dell'enigma che stavo sciogliendo.
Avevo capito che cosa stava succedendo.
30
Riuscii a resistere fino alle sette prima di chiamare Ryan. Lui mi rispose subito, con un tono vivace, ma affaticato.
«Ti ho svegliato?»
«Non importa. Tanto mi sarei dovuto alzare comunque per rispondere al telefono.»
«Vecchia battuta, Ryan.»
«Sembri agitata. Che succede?»
Gli esposi la mia teoria, e gli spiegai che cosa avevo trovato nel corso delle mie navigazioni notturne.
«Porca miseria, Brennan.»
«Dobbiamo assolutamente entrare in quella casa, Ryan.»
«Gli scheletri della pizzeria non sono un caso di mia competenza.»
«Però l'omicidio di Louise Parent lo è. Ménard o chi per lui probabilmente ha ucciso la donna per impedirle di parlare con me.»
Sentii il rumore di un fiammifero acceso, poi una lenta boccata di fumo.
«Voglio che Claudel e Charbonneau ascoltino questa storia» disse Ryan. «Ti trovo lì ancora per quanto?»
«Ti aspetto.»
Ryan mi richiamò alle nove per dirmi che si erano dati appuntamento tutti e tre a casa mia per le undici.
«Claudel è d'accordo?»
«Luc è un ottimo poliziotto.»
«Sì, ma con il carisma di un serial killer. Preparo il caffè.»
Sapendo che Claudel sarebbe stato un osso duro, cercai di raccogliere più informazioni possibili prima del nostro incontro.
Claudel arrivò per primo, con il suo solito piglio arrogante.
«Bonjour» dissi, indicandogli il divano.
«Bonjour.»
Claudel si tolse il cappotto. Lo presi.
Dopodiché il tenente della CUM si aggiustò le maniche della sua giacca Armani per coprire gli immacolati polsini della camicia Burberry e si sedette sul divano accavallando le gambe.
«Du café?» proposi.
«Non.» Claudel controllò l'orologio con un gesto studiato. «Merci.»
Ryan e Charbonneau arrivarono a distanza di qualche minuto l'uno dall'altro, entrambi in jeans sbiaditi e maglione. Ryan era passato in una pâtisserie.
Riempii due tazze di caffè per Ryan e per Charbonneau, poi tutti e tre ci servimmo dal vassoio di paste portato da Ryan. In tutto questo, Claudel assunse un atteggiamento di regale distacco.
Fu Ryan a dare inizio alla riunione.
«Tempe, per favore, racconta anche a loro quello che mi hai già detto questa mattina.» Poi, rivolto a Claudel: «Luc, voglio che tu faccia bene attenzione».
Iniziai scegliendo con cura le parole.
«Il 19 maggio del 1977, una ragazza di vent'anni di nome Colleen Stan parte in autostop da Eugene, in Oregon, diretta a Westwood, in California. Dopo diversi passaggi, viene raccolta da Cameron Hooker e la moglie Jan. Gli Hooker conducono Colleen Stan nella Lassen National Forest, la ammanettano, la legano, la imbavagliano, le bendano gli occhi e la portano a casa loro.»
Birdie entrò in soggiorno, annusò due paia di scarponcini e un paio di mocassini, e fece la sua scelta.
«Ehi, Luc, il micio ha scelto te» disse Charbonneau strizzando l'occhio al suo compagno.
«Scusate.» Andai a togliere Birdie dalle ginocchia di Claudel.
Birdie assunse la sua aria più offesa.
«Cameron Hooker tenne Colleen Stan chiusa nel buio più completo e in una totale deprivazione sensoriale fino a ventitré ore al giorno. Per sette anni.»
«Bastardo figlio di puttana» esclamò Charbonneau.
«Hooker teneva prigioniera Colleen Stan in una serie di casse che lui stesso aveva progettato a questo scopo. E quando ne aveva voglia, la faceva uscire, la appendeva ai tubi, la legava a una rastrelliera, la frustava, la folgorava con i cavi elettrici, la stuprava, la lasciava morire di fame, la terrorizzava in ogni modo.»
Claudel si tolse un pelo del gatto dalla manica.
«Alla fine la moglie di Hooker la liberò. Hooker fu arrestato nel novembre del 1984. Un anno dopo, fu condannato per rapimento, violenza carnale, sodomia, e una serie di altri capi d'accusa. I media ci sguazzarono come topi nel formaggio.»
«Che rilevanza ha tutto questo con il nostro caso?» domandò Claudel con un sospiro.
«Il calvario di Colleen Stan ebbe luogo a Red Bluff, in California. Red Bluff si trova a sessanta chilometri da Chico.»
«Stephen Ménard frequentava un master presso l'università di Chico nel 1985» disse Claudel, prendendo la sua seconda ciambella.
Io annuii.
Birdie sgusciò vicino al divano, inarcò il dorso e andò a strofinarsi sulla gamba di Claudel. Poi si alzò sulle zampe posteriore e appoggiò quelle anteriori sulle ginocchia del tenente.
Mi scusai di nuovo, sollevai il mio gatto e decisi di chiuderlo in camera mia.
«Ma il tizio che abbiamo qui a Montréal non è Ménard» osservò Charbonneau quando tornai in soggiorno.
«Usa quel nome solo per comodità.»
«Allora, dov'è il vero Ménard?»
«Non lo so. Forse è stato ucciso dall'uomo che adesso vive a Pointe Saint-Charles. Questo è il vostro lavoro.»
«Continua» mi sollecitò Ryan.
«Il caso di Colleen Stan rimase in primo piano su tutti i media dall'autunno dell'84 all'autunno dell'anno dopo. La stampa era impazzita per la vicenda di Colleen Stan. Lo chiamavano il caso della "ragazza nella cassa". Poi il caso della "bambola da sesso".»
Claudel guardò l'orologio.
«Lo stesso anno, una ragazzina di quattordici anni, una certa Angie Robinson, scomparve da Corning, in California. Corning si trova fra Chico e Red Bluff.» Mi fermai per dare più risalto alla frase successiva. «Ho motivo di credere che lo scheletro di una delle tre ragazze della pizzeria appartenga ad Angie Robinson.»
Charbonneau rimase con un boccone di ciambella a mezz'aria. «La ragazza nell'involucro di cuoio?»
«Sì.»
«Quella con il polso fratturato» intervenne Claudel. «Dottoressa, lei aveva detto di essere certa che le età fossero incompatibili.»
«Ho detto che Angie Robinson era troppo giovane e troppo bassa per corrispondere allo scheletro 38428. Ma se Angie dopo il suo allontanamento da casa ha vissuto per un certo periodo di tempo, questo spiegherebbe la discrepanza.»
«Forse dovresti spiegare anche a loro i risultati dell'esame dell'isotopo di stronzio e della datazione al carbonio» suggerì Ryan.
Spiegai.
E la storia del sigillante dentario.
Spiegai ancora.
«Porca miseria» esclamò Charbonneau. «Quindi lei è convinta che Ménard abbia seguito il caso sui giornali e sia stato ispirato da questo pazzo maniaco di Hooker?»
«Sì. Ma c'è di più. Anique Pomerleau è scomparsa da Mascouche nel 1990 all'età di quindici anni. Venerdì Ryan e io la ritroviamo a casa di Ménard.»
«Ménard abita in quella casa dal 1988» disse Charbonneau.
Claudel fece un cenno con la testa e parlò con la solita voce nasale.
«Quindi, sulla base di questa storia della ragazza nelle casse...»
«La ragazza ha un nome.» Il cinismo di Claudel mi stava dando sui nervi. «Si chiama Colleen Stan.»
Notai le narici di Claudel tendersi.
«Quindi lei è convinta che Ménard stia trattenendo Anique Pomerleau contro la sua volontà da almeno quindici anni? E che Angela Robinson e le altre due ragazze sepolte nello scantinato erano anche loro sue prigioniere?»
Annuii.
Per qualche secondo nessuno parlò.
«Anique Pomerleau ha tentato di fuggire?»
«No.»
«Per caso vi ha segnalato in qualche modo che volesse lasciare la casa di Ménard?»
«Non aveva nessun cartello con la scritta AIUTATEMI, se è questo che intende dire.»
Claudel sollevò un sopracciglio, rivolto a Ryan.
«La Pomerleau sembrava piuttosto spaventata» disse Ryan.
«Io direi che sembrava terrorizzata» precisai.
«Che cosa ha fatto, esattamente?» domandò Charbonneau.
«È sgusciata via appena Ménard ha alzato lo guardo su di lei. Si è comportata come un cagnolino maltrattato.»
«Lei crede che Ménard stia sequestrando Anique Pomerleau come una sorta di oggetto sessuale?» domandò Charbonneau.
«Non sto suggerendo nessuna motivazione.»
«Cazzate» sbuffò Claudel.
«In che senso, scusi?» domandai.
Claudel sollevò le spalle e allargò le braccia. «Qualsiasi persona adulta in grado di intendere e di volere avrebbe chiesto aiuto.»
«Gli psicologi non sarebbero d'accordo con lei» ribattei. «Pare che lei non abbia troppa confidenza con la sindrome di Stoccolma.»
Claudel allargò le mani con i palmi rivolti verso l'alto.
«È una forma di adattamento a una forte condizione di stress patito in condizioni di reclusione e di tortura.»
La mani di Claudel gli ricaddero in grembo, il suo mento si abbassò.
«La sindrome di Stoccolma si registra nelle vittime dei rapimenti, nei prigionieri, nei membri delle sette, negli ostaggi, perfino nelle mogli maltrattate e nei bambini. Le vittime sembrano accettare la loro condizione, e possono perfino provare sentimenti di attaccamento per i loro carcerieri.»
«Strano nome» commentò Charbonneau.
«Il nome della sindrome deriva da un episodio che si è verificato a Stoccolma nel 1973. Tre donne e un uomo erano stati tenuti in ostaggio per sei giorni da due ex detenuti che stavano rapinando una banca. Gli ostaggi avevano finito per credere che i rapinatori li stessero proteggendo dalla polizia. E dopo la liberazione, una delle donne si era fidanzata con uno dei rapinatori, mentre l'altra aveva aperto una sottoscrizione per la difesa degli imputati.»
«La caratteristica fondamentale è la reazione passiva a una situazione pericolosa» aggiunse Ryan.
«Insomma, oltre al danno anche la beffa» sintetizzò Charbonneau.
«Ben più di questo» dissi. «Le persone oggetto di questa sindrome, si sentono legate ai loro carcerieri da un vincolo molto stretto, talvolta addirittura si identificano con essi. E possono comportarsi con gratitudine nei loro confronti. O perfino sviluppare un sentimento d'amore.»
«E in quali circostanze, si sviluppa questa sindrome?» domandò Claudel.
«Gli psicologi sono concordi nell'affermare che per sviluppare la sindrome si devono verificare quattro fattori.» Li elencai sulla punta delle dita. «Uno, la vittima sente che la sua sopravvivenza è minacciata dal carceriere, e crede che questo porterà a compimento la sua minaccia. Due, alla vittima viene concessa qualche gentilezza, secondo il capriccio del carceriere.»
«Come per esempio essere lasciati in vita,» esclamò Charbonneau.
«Per esempio. Ma anche una breve pausa dalla tortura. Brevi periodi di libertà, un pasto decente, un bagno.»
«Sacre bleu.» Charbonneau di nuovo scosse la testa, incredulo.
«Tre, la vittima viene completamente privata di altri riferimenti, se non quelli forniti dal carceriere. Quattro, la vittima è convinta, a torto o a ragione, di non avere via di fuga.»
Né Charbonneau né Claudel dissero una parola.
«Cameron Hooker era un vero maestro a questo gioco» dissi. «Teneva Colleen Stan sepolta viva in una sorta di bara sotto il suo letto, e in genere la faceva uscire solo per brutalizzarla. Ma di tanto in tanto le concedeva dei brevi periodi di libertà. Talvolta poteva fare un po' di jogging, lavorare in giardino, andare in chiesa. Una volta l'aveva perfino portata a visitare i suoi parenti.»
«Ma perché questa ragazza non è scappata?» domandò Charbonneau passandosi una mano fra i capelli.
«Perché Hooker l'aveva convinta che fosse di sua proprietà.»
«Come, di sua proprietà?» chiese Charbonneau.
«Le aveva mostrato un finto contratto raccontandole che l'aveva comprata come una schiava in un posto chiamato "The Company". Le aveva fatto credere di essere sempre sotto sorveglianza, e che se avesse tentato di fuggire, i membri di "The Company" le avrebbero dato la caccia e l'avrebbero uccisa, insieme ai suoi famigliari.»
«Cibole!» Charbonneau alzò le braccia al cielo. «Perciò questo Hooker traumatizza la ragazza, lei si sente completamente isolata, deve rivolgersi a lui per ogni minimo bisogno, e finisce per sviluppare un sentimento per questo rifiuto umano?»
«Esattamente» confermai. «Una delle testimonianze più controverse si basava su una lettera d'amore scritta dalla ragazza a Hooker.»
Charbonneau mi guardò inorridito.
«Un altro caso è quello di Elizabeth Smart, sequestrata da una banda di pazzi per quasi un anno» continuai. «A lei era capitato di sentire le persone che la cercavano, una volta perfino la voce dello zio. Ma non ha mai concretamente cercato di fuggire.»
«Elizabeth Smart era una ragazzina di quattordici anni» osservò Charbonneau.
«Ricordate Patricia Hearst?» domandò Ryan. «L'Esercito di liberazione simbionese l'aveva rapita e rinchiusa in un armadio. E lei ha finito per rapinare una banca insieme ai suoi rapitori.»
«Quella era una storia politica.» Charbonneau si alzò in piedi di scatto e iniziò a passeggiare avanti e indietro per la stanza. «Questo Hooker doveva essere una sorta di psicopatico mutante. Le persone non vanno in giro a sequestrare ragazze e a rinchiuderle nelle casse.»
«Il fenomeno potrebbe essere molto più comune di quel che pensiamo» dissi.
Charbonneau smise di camminare. Lui e Claudel mi guardarono.
«Nel 2003 John Jamelske si dichiarò colpevole per il reato di aver rinchiuso cinque donne in un bunker di cemento costruito sotto il suo cortile, e di averle usate come giocattoli sessuali.»
«Proprio dietro l'angolo» intervenne Claudel, passando finalmente all'inglese. «A Syracuse, nello Stato di New York.»
«Oh, Dio.» Di nuovo Charbonneau si passò una mano tra i capelli. «Ricordi il caso Lake e Ng?»
Leonard Lake e Charles Ng erano una coppia di misogini patologici che costruì una camera di tortura in un ranch isolato della contea di Calaveras, in California. Almeno due donne erano state filmate mentre subivano le torture della coppia. Il nastro era intitolato M ladies, dove M stava per «murdered», assassinate.
«Come sono finiti quei bastardi?» La voce di Claudel trasudava disgusto.
«Lake era stato beccato mentre rubacchiava in un negozio e si era tolto di mezzo con una capsula di cianuro. Ng invece era stato fermato in Canada, a Calgary, e ha lottato contro l'estradizione per circa dieci anni, giusto, dottoressa?»
«Sì. Ci sono voluti sei anni di battaglie legali, ma alla fine Ng è dovuto tornare in California per il processo. Nel 1998 la giuria lo ha dichiarato colpevole di aver assassinato tre donne, sette uomini, e due neonati.»
«Basta.» La voce di Claudel aveva perso qualsiasi freddezza. «Lei è convinta che Ménard abbia trasferito il suo orrendo teatrino qui a Montréal?»
«Secondo Rose Fisher, Louise Parent mi aveva chiamata per raccontarmi che aveva visto Ménard due volte con delle ragazze molto giovani. E nello scantinato dei locali che questa persona aveva in affitto abbiamo trovato tre scheletri sepolti sotto il pavimento.»
«Crede che Ménard abbia trasportato Angie Robinson da Corning, in California, a Montréal?»
«Angie, o il suo cadavere.»
«E che abbia sequestrato e sottomesso Anique Pomerleau?»
«Sì.»
Claudel diede voce alle mie paure.
«E che, se si dovesse sentire minacciato, potrebbe uccidere Anique Pomerleau?»
«Sì.»
Gli occhi di Claudel diventarono una fessura. Il tenente guardò il suo compagno e si alzò.
«Un giudice dovrebbe prendere in considerazione tutta questa storia.»
«Ha intenzione di farsi firmare un mandato?»
«Appena il nostro amico mette piede in tribunale.»
«Voglio venire con voi a Pointe-Saint Charles.»
«Non se ne parla nemmeno.»
«Perché?»
«Se quello che dice è vero, questo Ménard è un tipo pericoloso.»
«Sono adulta e vaccinata.»
Claudel mi fissò così a lungo che pensai non avesse alcuna intenzione di replicare. Invece, ammiccando a Ryan, disse: «Ehi, porta un'altra colt per il cowboy».
Ero sbalordita. Quel pezzo di ghiaccio di Claudel aveva tentato di fare una battuta.
Il resto di quella domenica fu una vera agonia. Cercai di occupare il tempo dedicandomi a vari lavoretti, ma non riuscii ugualmente a scacciare la tristezza e la delusione che sentivo. Perché non mi ero resa conto prima che le ossa potevano appartenere a ragazze tenute segregate? Perché non avevo capito subito il motivo per cui i miei profili non corrispondevano alle descrizioni registrate negli elenchi delle persone scomparse? Continuavo a chiedermi perché, all'infinito. Ma avrebbe fatto qualche differenza?
Una serie di immagini inquietanti si alternavano nella mia testa. Anique Pomerleau, con la sua carnagione pallida e la lunga treccia bruna. Angie Robinson, sepolta in uno scantinato in un involucro di cuoio.
Ryan.
Anne. Dove diavolo era finita? Avrei dovuto impegnarmi di più per ritrovarla? E che cosa avrei dovuto fare?
Provai con qualche canzone natalizia. Mi tirarono su il morale come un Babbo Natale dell'Esercito della Salvezza.
Andai in palestra, percorsi cinque chilometri sul tapis roulant con le cuffiette in testa e un CD di vecchi successi.
The Lovin' Spoonful. Donovan. The Mamas and the Papas. Le Supremes.
Quella notte, mentre mi giravo e rigiravo nel letto, un ritornello continuava a girarmi in testa.
Monday, Monday...
Due lunedì prima avevo recuperato dal pavimento di uno scantinato le ossa di tre ragazze.
Un lunedì prima avevo tolto delle piume dalla bocca di Louise Parent.
L'indomani mi sarei potuta ritrovare nella casa degli orrori.
Can't trust that day...
Il pensiero di ciò che avrebbe potuto portare quel nuovo lunedì mi fece rabbrividire.
31
Alle nove Claudel ottenne il mandato. Ryan era arrivato a prendermi alle nove meno un quarto.
Quando salii sulla sua jeep, mi passò un bicchiere di caffè. Ma la caffeina non era quello di cui avevo bisogno. Ero così carica che avrei potuto intonacare tutto il Pentagono.
Lo ringraziai, mi tolsi i guanti e strinsi le dita intorno al bicchiere di polistirolo, cercando di controllare il ritmo cardiaco nonostante stessi bevendo.
Dopo cinque minuti, Ryan aprì il finestrino e si accese una Player. In una situazione normale mi avrebbe chiesto se mi dava fastidio. Quella mattina, no. Immaginai che fosse teso almeno quanto me.
Per le strade circolavano gli ultimi strascichi del traffico dell'ora di punta mattutina. Un decennio e venti minuti dopo arrivammo alla Punta.
Quando svoltammo su Rue de Sébastopol, notai due autopattuglie e un'Impala senza scritte di riconoscimento posizionati lungo l'isolato. Dal tubo di scappamento dei tre veicoli uscivano nuvole di fumo.
Ryan parcheggiò dietro la volante più vicina. Mentre spegneva il motore, si voltò verso di me.
«Se Ménard fa solo il gesto di guardare nella tua direzione, giri i tacchi e te ne vai. Immediatamente. Ci siamo capiti?»
«Stiamo andando a fare una perquisizione, non a espugnare quella casa.»
«Le cose potrebbero mettersi male.»
«Ci sono sette poliziotti, Ryan. Se Ménard non collabora, mettetegli le manette.»
«Un atteggiamento minaccioso qualsiasi, e tu molli il colpo. Capito?»
Risposi con un provocatorio saluto militare.
La voce di Ryan si fece più severa. «Non sto scherzando, maledizione. Se ti dico di andartene, tu te la fili.»
Per tutta risposta, alzai gli occhi al cielo.
«O così, o niente.» Ryan fece per riavviare il motore.
«D'accordo» dissi, infilando i guanti. «Obbedisco agli ordini, signore.»
«Non fare la furba, Tempe. Questa è una faccenda pericolosa.»
Dopodiché uscimmo e richiudemmo le portiere silenziosamente.
Nel corso della notte il tempo era cambiato. L'aria si era fatta umida e gelida, e nel cielo si erano accumulati pesanti nuvoloni grigi. Appena ci vide, il cane del capannone iniziò ad abbaiare. Ma questo rimase l'unico segno di vita di quel tratto di Rue de Sébastopol. Niente bambini che fingevano di giocare a hockey. Niente casalinghe cariche di borse della spesa. Niente pensionati che chiacchieravano sui balconi o davanti ai negozi.